Pubblicato il: 30/11/2017Categorie: Editoriali, News

30 novembre 2017 – In queste ultime settimane la macchina organizzativa per l’accoglienza notturna dei senza dimora in città di Como ha lavorato a pieno regime e, come programmato, dal 2 dicembre è aperto in via Sirtori il servizio denominato “Emergenza freddo”, che offrirà ospitalità a circa 40 persone fino in primavera.

Anche quest’anno quindi – e siamo alla sesta “edizione” – la Caritas diocesana fa fronte a questa emergenza con tempestività e “collaudata” capacità.

Il mio personale grazie a tutti coloro che sono stati impegnati e lo saranno anche nei prossimi mesi ad accogliere in modo dignitoso queste persone in difficoltà: operatori, volontari, tantissime persone di “buona volontà” che, in modo encomiabile, ogni giorno sono presenti e rendono possibile questo “progetto”.
Detto questo, mi permetto alcune osservazioni e alcune riflessioni.

La prima.
Continuiamo a chiamare “emergenza freddo” ciò che emergenza non è. Mi spiego: il freddo giunge puntuale tutti gli anni. È un evento naturale, si sa. Quindi dovrebbe essere scontato arrivare, in questo periodo invernale, preparati e organizzati per dare accoglienza ai senza dimora senza chiamare “emergenza freddo” un servizio che deve essere considerato  “normale” e soprattutto programmato per tempo.

La seconda (collegata alla prima).
Forse è giunta l’ora di considerare l’accoglienza notturna in città come un servizio che dura tutto l’anno, un servizio che non ha stagioni e soprattutto che possa essere “flessibile” in termini di spazi e disponibilità, visto che a Como abbiamo la presenza dei senza dimora comaschi, ma anche di numerosi migranti (le persone cosiddette “in transito” e anche coloro che, usciti dai centri di accoglienza, hanno bisogno ancora di assistenza). Un servizio direi “trasversale”, che si affianca agli indispensabili servizi “storici” presenti in città – pensiamo, per esempio, al dormitorio di via Napoleona – e che possa essere punto di riferimento per tutte le situazioni che si presentano sul territorio (e non soltanto nei mesi invernali).

La terza (collegata alla prima e alla seconda).
Di fronte a questa situazione che definisco “strutturale” pongo una domanda provocatoria: oggi – e soprattutto domani – siamo disposti ad accogliere tutti o dobbiamo darci un limite, fare discriminazioni, abbassare la sbarra dell’accoglienza? Se la comunità cristiana è disposta a giocare fino in fondo – e in termini profetici – il ruolo dell’“accoglienza senza se e senza ma” deve essere disposta a fare un auspicabile “salto di qualità” con convinzione e senza remore.

Tante parrocchie hanno aperto le loro porte ai migranti, tante comunità si sono organizzate per dare un aiuto concreto alle persone in difficoltà.
Mi auguro che tante altre facciano altrettanto. Con convinzione.

Tuttavia, pongo la stessa domanda provocatoria alla società civile, alle istituzioni.

Ai nostri politici chiedo disponibilità e concretezza. In questo momento storico, in città siamo di fronte a un paradosso (non certo nuovo): mentre Caritas (e altre istituzioni meritevoli) lavora per far fronte all’accoglienza notturna pensando anche a soluzioni tecniche non semplici, come l’uso di tende in aree organizzate, sul territorio vige un palese degrado dell’edilizia pubblica, tanti appartamenti sono vuoti e, comunque, “chiusi” a qualsiasi ipotesi di utilizzo anche temporaneo per eventuali emergenze sociali.
Ciò è giusto? È tollerabile?

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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