«La forte diminuzione dei migranti e il ridotto numero dei respingimenti dalla Svizzera fanno sì che non sussistano più le esigenze di interesse pubblico al mantenimento del centro per migranti di Como via Regina».
Con questo comunicato, diramato dal Ministero degli Interni nel pomeriggio di mercoledì 12 settembre, al termine di una riunione che si è svolta a Roma, presso la sede del Viminale, alla presenza delle massime autorità della città di Como, in modo improvviso e senza nessun coinvolgimento di chi in questi due anni aveva collaborato con persone e mezzi per rendere più umana la vita al Campo, si è messo fine a un’esperienza che si riteneva positiva. Continuiamo a credere che la nostra sia una città accogliente.
Considerata la collocazione geografica di Como, con l’attrattiva del passaggio verso Nord che continuerà con o senza Campo, e le modalità di gestione interna, non riteniamo giustificata la chiusura di via Regina. Negli ultimi due anni dalla città sono transitati circa 60mila richiedenti asilo. Il Campo ha dato accoglienza a quasi 8mila persone: fra questi oltre un migliaio di minori non accompagnati.
Certamente, ripensando alla chiusura notturna della Stazione San Giovanni, con il gruppo di 70-80 persone che vi dormivano, e poi alle difficoltà dell’estate/autunno 2016 – la contingenza che portò all’apertura del Cappelletti – la situazione a Como, nel frattempo, è cambiata. Ma questo anche grazie al lavoro di accoglienza, assistenza, mediazione e accompagnamento legale svolto all’interno del Campo e alla rete di leale collaborazione fra diverse istituzioni (Terzo Settore, Prefettura, Questura, Comune).
Seppur in forma minore, però, i migranti continuano ad arrivare e, senza un reale impegno globale all’accompagnamento umano dei flussi, in un luogo di frontiera come il nostro è logico che i passaggi non siano destinati a esaurirsi.
Fin dal primo giorno di attività del Centro, tutti sapevamo che quella struttura sarebbe stata provvisoria. Ci siamo messi in gioco in prima persona – insieme a tante associazioni, a uomini e donne di buona volontà – e di fronte a innegabili problemi, che nessuno ha mai nascosto, abbiamo messo il massimo impegno per la ricerca di soluzioni. Per questo possiamo dire che il Campo funzionava, creando uno stile di vicinanza umana e di correttezza istituzionale, nel solco della legalità, nel rispetto dei principi umanitari e giuridici. Uno stile di accoglienza esportato anche al di fuori del Campo, che ha permesso di rendere la città di Como più sicura, collaborando con le forze dell’ordine, isolando i soggetti a rischio, mettendo in atto procedure di gestione ragionevoli (come le relocation e i rimpatri volontari).
Il Centro è stato e può essere una risorsa per il territorio, pur conservando la sua temporaneità, poiché le «esigenze di interesse pubblico» continuano a sussistere. Pensiamo anche alle persone che quel Campo ancora lo abitano e a chi è stato trasferito all’improvviso: quale rispetto per i loro percorsi già iniziati? Per la loro dignità?
A maggior ragione, riteniamo ipocrita sfruttare le competenze di cittadini, associazioni e volontari, quando serve. Per poi ignorarli e non interpellarli e non ascoltarli prima di operare scelte che intaccano la vivibilità della stessa città.
Più volte, in questi soli due anni di apertura, abbiamo visto modificare il fenomeno migratorio e le sue esigenze. Il Campo stesso ha mutato impostazione e quindi abbiamo suggerito, come facciamo ora, che possa restare e diventare risposta a tante altre forme di povertà presenti in città, legate al fenomeno migratorio e non solo, e per le quali le istituzioni stanno sempre più delegando al solo Terzo Settore la gestione ordinaria e straordinaria. Si potrebbero così alleggerire i servizi alle fragilità che, grazie alla dedizione di operatori e volontari, affrontano ritmi e numeri talvolta insostenibili. Eppure non hanno mai fatto mancare assistenza a chiunque si sia presentato a chiedere un aiuto, anche su richiesta delle istituzioni, avendo a cuore le persone, non le provenienze…
Risuonano in questo momento dentro di noi le parole pronunciate dal Vescovo nel discorso alla città in occasione della festa di Sant’Abbondio, ma anche gli impegni presi dal Sindaco in quella occasione.
Imparare a vedere l’altro
«La più grande esclusione consiste nel non riuscire neanche a vedere l’escluso…. Spesso chi dorme per la strada non viene visto come una persona, ma come parte dello stato di abbandono del paesaggio urbano… Il nostro sguardo non può essere neutro. O, peggio, indifferente, freddo e distaccato. Impariamo a vedere l’altro, chiunque esso sia, con gli occhi del cuore. Allora sapremo cogliere anche i bisogni più nascosti delle persone e la nostra città sarà veramente abitabile».
Condividiamo queste riflessioni che il nostro Vescovo ci ha donato, perché ci confortano e ci stimolano a rendere pubblico il nostro sconcerto per i fatti che in questi giorni hanno messo alla prova la fiducia nelle istituzioni. In esse, però, noi vogliamo continuare a credere. Siamo certi, infatti, che siano strumento di vita democratica per mettere al centro il bene di tutti gli uomini e le donne che vivono sul territorio, partendo dagli ultimi e da chi ha più bisogno.
È innegabile che le povertà e in particolare il fenomeno migratorio, che è la sfida dell’oggi, abbiano portato scompiglio e sensazione di paura. Ci siamo ritrovati accanto a volti e storie che di solito eravamo abituati a vedere nei telegiornali o nelle riviste missionarie, ci siamo accorti che hanno nome, sentimenti, vivono la paura dell’isolamento, della lontananza dalle famiglie di origine e chiedono di essere riconosciuti come persone e, in quanto tali, titolari di doveri e di diritti.
C’è la paura di condividere, con chi non ha nulla, persino ciò che risulta in eccesso. Ma è il nostro essere “umani” che ci impone di non voltarci dall’altra parte e ce lo chiedono anche la nostra Costituzione e il diritto internazionale. Prima le persone. Cominciamo a incontrarle.
Di più ancora: chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso. Non si può continuare a dirsi cattolici e venire contraddetti dalle nostre esplicite scelte. Come Chiesa non possiamo tacere.
La cattiva erba del sospetto e del rancore fa credere che per risolvere i problemi si debbano estirpare chissà quali bubboni, senza curarne le reali cause. Il più pericoloso, il primo da incidere era il Campo Cappelletti… E dopo?
Crediamo sia piuttosto da sanare una cultura di rabbia e diffidenza, di indifferenza verso le condizioni di vita di tanti fratelli, in tante parti del mondo, sfruttati e scartati per giustificare i nostri stili di vita e la nostra ricchezza.
Non vorremmo ritrovare questo malessere anche in chi ha deciso di dedicare il proprio tempo al governo della città, alla vita politica o al funzionamento delle istituzioni dello Stato, e così vanificare le collaborazioni fin qui maturate.
Noi firmatari chiediamo che il Campo Cappelletti continui a svolgere il suo servizio e che sia sempre desta l’attenzione a tutti i bisogni della città e di chi la vive.
Caritas della diocesi di Como; Ufficio Migrantes;
Centro missionario diocesano; Azione cattolica della diocesi di Como;
Opera don Guanella; Missionari Saveriani di Tavernerio;
Padri Comboniani di Rebbio
Acli; Forum comasco delle Associazioni familiari; CIF provinciale; Eskenosen; Masci;
Movimento Focolari – comunità di Como
aderiscono alla lettera aperta e ne condividono il contenuto anche le realtà impegnate nell’accoglienza; Symplokè onlus;
Cooperativa Lotta contro l’Emarginaziome
La lettera è aperta a sottoscrizioni e adesioni
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