21 marzo 2014 – In questi giorni sono sollecitato a fare il punto sulla povertà e sull’emarginazione che sono presenti in città di Como e sull’intero territorio della nostra Diocesi.
Ebbene, mi rendo conto che tra le persone e nelle nostre comunità vi è più consapevolezza delle problematiche che ogni giorno dobbiamo affrontare e che ci sono tante persone (uomini, donne e numerosi giovani) che vogliono impegnarsi donando tempo, energie e professionalità per far vivere tutte quelle strutture che possono dare possibilità di vita dignitosa all’esercito di senza dimora e di esodati che vivono in mezzo a noi.
Dobbiamo renderci conto che ciò che sta succedendo nel Comasco non è un’emergenza, ma è oramai una condizione strutturale della nostra società. E le cause delle fatiche che stiamo vivendo non sono da imputare soltanto alle disfunzioni a livello locale, ma sono legate alle poche prospettive, alle poche idee che tutta la società – sia nazionale e sia internazionale – hanno sulla promozione e lo sviluppo dell’uomo.
Sul nostro territorio possiamo immaginare quattro categorie di persone che vivono una condizione di disagio, di emarginazione profonda e di povertà estrema.
I clochard tradizionali, persone che non reggono più allo stress di una società tutta votata al consumo e alla produzione e che, quindi, si autoemarginano.
I nuovi poveri, persone che a causa della perdita del lavoro non sono più in grado di mantenere la famiglia e di onorare i debiti, e a causa di questo motivo sempre più spesso diventano vittime di varie dipendenze come quella del gioco, oggi una tra le più pericolose.
Gli immigrati, persone che arrivano da noi perché in fuga da guerre e fame – e tra questi i più deboli e i più emarginati sono i minori senza famiglia.
Le persone che per la loro situazione di handicap o di malattia vivono ai margini della nostra società e pur abitando in mezzo a noi, nelle nostre stesse famiglie, sempre più spesso sono soli.
Di certo non ho ricette miracolose da proporre per far fronte a queste situazioni di disagio, ma posso sottolineare che una buona prassi per “fare carità” – e ciò vale anche nel cammino di Quaresima da poco intrapreso – è vivere la dimensione dell’accoglienza e della condivisione.
La condivisione è un segno di vita e di speranza, che si deve realizzare attraverso gesti concreti: condividere la casa, il lavoro, saper ascoltare attraverso il dialogo che dà la possibilità di esprimersi attraverso la propria cultura in campo politico e sociale. Condividere con l’altro, con chi è diverso da me, permette all’altro di poter “superare la sua morte”, cioè la disperazione, il suo stato di prostrazione.
La condivisione è per la vita, diventa segno di vita.
Ma non è tutto. Occorre da parte nostra anche vera autenticità. E questa, credo, sia la parte più difficile da vivere per noi che abbiamo smarrito il senso dell’appartenenza, il senso della Storia, che ci siamo gradatamente chiusi nel nostro privato attorno al quale cerchiamo di far ruotare tutto ciò che ci interessa.
Dobbiamo riprendere il coraggio di fare autocritica e di riscoprirci per quello che veramente siamo e non per quello che riusciamo a possedere o a consumare.
Dobbiamo riscoprire la bellezza del dono, la bellezza del servizio. E – perché no? – anche dell’impegno sociale e politico vissuto con generosità e a favore degli altri e del bene comune.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
Condividi questo articolo
Continua a leggere