Pubblicato il: 27/02/2019Categorie: Editoriali, News
Bernasconi_Roberto
23 febbraio 2019 – In questo tempo storico, in cui la dimensione di vita privata prevale all’interno della nostra società civile, nelle famiglie, all’interno del mondo sociale e politico – ma anche nelle nostre parrocchie che sempre meno si sentono comunità coese – corriamo il rischio da lasciarci prendere dalla paura, di sentirci persone che hanno perso i riferimenti per individuare il percorso che conduce a vivere in modo pieno la propria esistenza. Paradossalmente questo rinchiuderci nel privato ci crea una condizione di smarrimento simile a quella delle tante persone che approdano nel nostro Paese alla ricerca di possibilità di vita migliore, ma che   invece restano invischiate in un labirinto di insicurezze e di odio collettivo, insicurezza e odio che fanno perdere anche a noi – come a loro – la speranza di una vita piena.

Mi spiego meglio.
Sembra che oggi nel nostro Paese non ci sia più spazio per chi vuole impegnarsi e vivere la sua vita affrontando un percorso sociale, per chi ritiene che non basti essere spettatore passivo di una commedia recitata da altri, ma vuole far parte della trama che sia il più possibile costruita in solidarietà con chi non trova luoghi adatti al confronto, alla condivisione di idee, alla costruzione di cammini ragionati e costruiti proprio partendo da principi di tolleranza e di accettazione e condivisione delle varie esperienze di vita frutto di culture e di storie collettive diverse.

Un ulteriore motivo di riflessione ci è dato dalla constatazione che oggi c’è una maggioranza silente che non riesce a esprimere il proprio pensiero, perché soffocata da chi, attraverso i media, vende notizie false impregnate di odio e di razzismo.

Questa maggioranza non trova spazio per rendere fruibile nel dibattito quotidiano il proprio convincimento sulla convivenza civile tra gli uomini: ad esempio, comunicare la certezza che il bene comune supera di gran lunga per importanza il bene di ogni singolo, perché è proprio partendo da una riflessione sul bene comune che si ritrova la capacità di coniugare l’esperienza della vita dei singoli con i principi di tolleranza e di condivisione che sono alla base del vivere civile.

Una delle cause di questa chiusura agli altri sta nel fatto che oggi si sono svuotati di principi e di contenuti  l’esistenza e le azioni di tutti quei corpi intermedi – sociali, sindacali e politici attivi dal secondo dopoguerra –  che hanno permesso uno sviluppo democratico della nostra società, attraverso un dialogo serrato che alcune volte poteva essere faticoso ma mai di chiusura totale, e che ha permesso la crescita democratica del Paese, una crescita che ci ha regalato un’idea importante di corresponsabilità.

Questa involuzione è avvenuta anche in campo ecclesiale.
All’interno delle parrocchie esistono sempre meno occasioni comunitarie, capaci di aiutare a incarnare il Vangelo nella concretezza della vita di oggi. È in atto, infatti, una crisi profonda di gruppi e associazioni; ci si affida sempre di più a un recupero di pratiche religiose personali che allontanano le persone da un cammino di fede comunitario.

Ritengo sia questa la povertà più grande che ci attanaglia nel nostro tempo, che ci rende schiavi delle tante cose che possediamo, che ci impedisce di vivere una vera vita di relazione basata sulla condivisione che porta all’accoglienza dell’altro, alla capacità di una progettazione comune che superi il concetto di bene personale, ma che metta al centro del nostro essere e del nostro agire il bene di tutti.

È questa dimensione sociale che deve guidare il variegato mondo che si impegna nel vivere cammini di  carità. In primo luogo la stessa Caritas e tutti quei gruppi e quelle associazioni che operano nelle nostre comunità.

Una dimensione sociale che ci proietta all’interno delle situazioni di vita, che ci interroga sul metodo e sulle motivazioni che ci guidano a percorrere la strada della carità.

Allora potremo capire che non è sufficiente imparare tecniche di approccio alle povertà, oppure reperire fondi, materiali, derrate; non basta neanche fare delle previsioni e costruire progetti di aiuti concreti – tutte azioni queste importanti e doverose – che però non ci avvicinano in modo profondo alle persone che ci interpellano in cerca di aiuto e di solidarietà.

Queste persone da noi vogliono condivisione di vita prima che beni di consumo; vogliono amicizia vera e condivisione prima che lezioni di comportamento.

Dobbiamo allora darci delle priorità.
Un cristiano che vuole testimoniare e vivere un cammino di carità deve mettere al centro del suo essere la Parola meditata e pregata, ma accanto alla Parola ci devono stare le persone che ci avvicinano in cerca di aiuto e che diventano la concretizzazione della Parola stessa che da Verbo – attraverso queste persone –  diventa Carne, si rende visibile come volto di Cristo sofferente. Due dimensioni, queste, che di solito separiamo e approcciamo in momenti diversi: da un alto, la Parola la teniamo chiusa all’interno del momento liturgico o, per chi è più attento, la accogliamo come strumento per un approfondimento personale; dall’altro le persone, che ci avvicinano e ci servono come strumento per esercitare il nostro bisogno di carità.

Per essere operatori di carità, pronti a viverla anche nella dimensione sociale, serve innanzitutto avere la capacità di superare questa separatezza tra fede pregata, meditata e fede vissuta. Tu non puoi conoscere a fondo Cristo, non lo puoi riscoprire nella sua dimensione vera se separi l’ascolto della Parola dalla vita, dal quotidiano, non riesci a comprendere pienamente la Parola se non la vivi, se non la incarni nella concretezza del mondo, se non la riscopri all’interno della vita partendo dall’assumersi e dal condividere la vita di chi soffre.
Di chi è ultimo.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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