29 agosto 2021 – Dopo gli ultimi avvenimenti a livello mondiale, che inevitabilmente porteranno ripercussioni nella nostra società occidentale, ci è apparsa chiara l’incapacità anche del nostro Paese di inserirsi in modo propositivo nella necessaria riflessione che possa costruire un percorso virtuoso, che ci permetta di uscire da questa situazione di conflitto permanente.
Questo diventa evidente in questi giorni in cui tutti siamo messi al corrente da parte dei media degli sviluppi della crisi afghana. In modo martellante ci fanno scoprire la terribile conseguenza del fallimento totale della presenza occidentale in questo Paese; in tempo reale ci danno il resoconto delle fatiche della folla accalcata fuori dall’aeroporto di Kabul che cerca di scappare per trovare quella tranquillità di vita che noi in venti anni non siamo stati capaci di dare loro.
Il fallimento è evidente a tutti, tranne che ai vari componenti degli schieramenti politici che da questa situazione trovano elementi nuovi per riaprire conflitti in cerca di consensi e si dimenticano che quello che sta succedendo in questi giorni è frutto di questa miopia.
Non ci resta allora che rinvigorire l’unica possibilità che abbiamo per riscattare la nostra società, per ridare corpo a quei valori cristiani e umani di accoglienza e di solidarietà che caratterizzano ancora la maggioranza della nostra gente: quella di ridare corpo a un’accoglienza vera a favore di chi sta arrivando nel nostro Paese.
Mi piacerebbe allora riflettere ancora una volta e richiamare i cardini principali di un’accoglienza vera, accoglienza che in questi anni ci ha permesso di aiutare tante donne e uomini che da diverse parti del mondo sono arrivati da noi in cerca di una possibilità di vita.
Sì, perché gli esodati afghani che arrivano in questi giorni da noi fanno parte di quella schiera di persone che da anni vedono l’Europa come un’àncora di salvezza, con una differenza: a loro è stato risparmiato il trauma di un viaggio esasperante in mare o sulla rotta balcanica (almeno finora), ma sono arrivati in aereo.
Mi pare di capire, vedendo la reazione della gente, che ci siamo dimenticati di questa dinamica e stiamo usando due pesi e due misure: questi sono migranti che devono essere aiutati, gli altri sono un peso per la nostra società. Che però non si dimentica di sfruttarli con lavoro in nero, quando va bene; oppure facendoli diventare bassa manovalanza per la malavita.
Il primo principio allora è quello dell’accoglienza sincera delle persone che vanno rispettate per quello che sono. E per rispettare bisogna innanzitutto conoscere cultura e storia, bisogna saper comunicare quello che siamo noi.
Questo diventa possibile non solo con cose o beni materiali da donare loro: sto pensando a quante raccolte di generi vari che per la maggior parte sono inutili, o meglio – se permettete – sono utili ai nostri armadi che si liberano di tutto quello che noi non usiamo più perché semplicemente è fuori moda.
L’accoglienza diventa possibile con un dialogo vero che è il frutto del rispetto che noi dobbiamo avere per loro.
Queste persone vanno chiamate per nome, il Lei è d’obbligo, perché noi dobbiamo approcciarci a loro con il rispetto che è dovuto a un ospite, che deve ricevere da noi il meglio e, anche se al momento non è in grado di ricambiare in modo concreto, sicuramente ricambia le cose materiali che noi diamo in umanità vera.
L’accoglienza diventa possibile non solo se noi riusciamo a pianificarla rispetto ai numeri o ai luoghi, ma se teniamo conto dei bisogni di chi accogliamo; spesso, invece, riusciamo addirittura a dividere i nuclei famigliari, noi che mettiamo al centro della nostra società la famiglia.
L’accoglienza diventa possibile se facciamo in modo che chi arriva da noi possa vivere quella dimensione della vita importante per tutti che è quella della spiritualità e del vivere una dimensione culturale. Forse noi in questi ultimi anni, presi dalla frenesia della realizzazione personale e dell’accumulo, ci siamo dimenticati di averle queste due dimensioni e adesso ci fa paura che altri le abbiano ancora al centro della loro esistenza.
Qualcuno ci ha fatto notare che noi ci abituiamo a tutto e che quindi ci abitueremo anche a questo. Credo che non sia così. Ci sono ancora tante persone attente a queste dinamiche che sono pronte a giocarsi la vita; serve però, come ci diceva San Paolo VI, che non bisogna dare per carità quello che è compito di un impegno sociale e politico. Allora credo che è compito soprattutto delle tante persone impegnate nel volontariato di saper tradurre in comportamenti sociali tutto il loro lavoro, perché anche attraverso di loro potremmo costruire una società più giusta dove il conflitto e la guerra vengano abolite e al centro del nostro vivere possiamo sempre mettere le persone.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
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