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5 gennaio 2022 –  Tommaso Siviero è un giovane della provincia di Como in servizio civile con Ipsia (ONG delle Acli) a Bihac dove collabora alle attività a favore dei migranti in transito realizzate anche grazie al contributo della Caritas diocesana di Como. Da alcuni mesi tiene un diario di questa sua esperienza su il Settimanale della Diocesi di Como e su queste pagine. Questa è la sua sesta puntata (qui trovate le precedenti).

Bihac in Bosnia Erzegovina, nodo nevralgico della Rotta balcanica, inverno pieno significa attesa. Non c’è molta neve e le temperature rimangono alte rispetto agli anni passati, ma affrontare il game (così i migranti chiamano i ripetuti tentativi di passare il confine) a dicembre è troppo rischioso. “Mi sto preparando per quando tornerà la primavera” mi dice Denis e, mentre beviamo un té, mi racconta del suo viaggio dal Burkina Faso alla Bosnia. È uno dei tanti che per evitare il passaggio dalla Libia e il Mediterraneo ha allungato il viaggio finendo per trovarsi bloccato a Lipa, a pochi km dall’Europa, a dicembre inoltrato: “Spero di poter ripartire a marzo, ma fino ad allora posso solo aspettare”. L’ultimo game non gli è andato molto bene. Dopo 14 giorni di cammino, finite le scorte di cibo e acqua, il suo gruppo ha deciso di consegnarsi alla polizia croata; provati da freddo, pioggia e neve sapevano che andare avanti significava rischiare la vita. La polizia li ha rimandati in Bosnia e Denis ci ha ricavato un principio di congelamento al pollice del piede sinistro, nero di cancrena. Si sta rimettendo, cambia le bende due volte al giorno e zoppica vistosamente.

È arrivato a Lipa dopo l’apertura della nuova struttura insieme ad altri suoi connazionali, spiccano con la pelle scura tra la popolazione per lo più afghana e pakistana del campo. “Ci siamo incontrati in Grecia e da lì abbiamo continuato il viaggio insieme”.

Sono sempre in gruppo, intuisci tra di loro una fiducia e un supporto vicendevole fondamentali per rimanere a galla lungo la Rotta balcanica. Nelle foto del game che mi mostra Denis ci sono solo africani: oltre a loro un paio di gambiani e ghanesi. La mattina arrivano al social cafè di Ipsia senza fretta, si prendono del té e si siedono ai tavoli o attorno al calcetto in attesa di poter giocare. Mi siedo spesso a chiacchierare con loro, mi parlano delle loro famiglie lasciate in Burkina Faso, dell’avanzata di Boko Haram e delle difficoltà economiche, ma anche delle feste di quartiere e del cibo che gli manca. Si fidano di me e mi tengono aggiornato sugli ultimi avvenimenti della Rotta, “magari possiamo provare l’Albania, sembra che un po’ di gente stia passando da là”, ma sono discorsi messi in pausa fino allo scioglimento delle nevi.

Come loro Lipa intera aspetta. In pochi provano la traversata oggi e c’è chi parla di tre vittime morte per congelamento nell’ultimo mese. Senza esperienza in montagna e con un equipaggiamento pessimo le possibilità di farcela scendono prossime allo zero. Tutta la Rotta balcanica sembra scendere in uno stato di letargo: i flussi si riducono notevolmente e in parte si invertono, con chi torna verso Sarajevo, verso la Serbia o addirittura la Grecia dove i campi di ricezione sono ritenuti migliori. Lo vediamo qua dove il nuovo campo inaugurato ad inizio novembre con una capienza di 1500 persone ne vede al momento 300 – per lo più single man, un paio di famiglie e una manciata di minori arrivati nelle ultime settimane.

Quando nel pomeriggio verso le 17 chiudiamo il social cafè, segniamo la fine delle attività della giornata. Almeno fino al giorno dopo, se non due quando è fine settimana, nel campo non ci sarà nient’altro di organizzato né spazi pubblici dove incontrarsi per passare il tempo e chiacchierare. Inizia la notte che è lunga e agitata. Chi è arrivato a Lipa ha attraversato almeno 4 confini cercando di evitare gli agenti di polizia e i militari schierati a guardia di ciascuno di essi. Ha rischiato la vita per lo meno altrettante volte, ha visto altri esseri umani negargli dei diritti fondamentali, metterlo in pericolo o minacciarlo di morte. Questo è il trauma, trovarsi di fronte alla volontà di un altro essere umano che con la forza mette in pericolo la tua vita.

È un avvenimento talmente enorme che la risposta normale a questa situazione che di normale non ha nulla è esserne ossessionati, continuare a rivivere il momento traumatico nella propria mente per provare a capire, provare a dargli un senso. Credo sia un tentativo di riprendere il controllo della situazione: se riesco a capirla forse la prossima volta riuscirò ad evitarla. Ma il risultato è l’ossessione. Le notti sono piene di incubi e di questo continuo rimuginare traumatico, di pensieri che girano senza sosta. “Troppi pensieri per la testa” è quello che ti risponde qualunque persona di Lipa quando gli chiedi come ha passato la notte. Provo ad immaginarmi cosa vorrebbe dire passare tutti questi momenti vuoti, rivivere i traumi passati nel viaggio amplificati dal silenzio e dall’esigenza di trovare una spiegazione alla violenza immotivata. La sensazione di non potere fare nulla tranne che aspettare e prepararsi per mesi per affrontare di nuovo il game. Non riesco. E mi sento in colpa per essere in Italia al momento, per il fatto che in questa settimana di vacanza non ci saranno nostre attività nel campo, per potere fare solo un minimo insufficiente di fronte ai bisogni di chi incontro tutti i giorni.

TOMMASO SIVIERO

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Leggi le puntate precedenti del Diario dalla Rotta balcanica

 

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Causale: Avvento di fraternità 2021

 

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