Pubblicato il: 22/01/2019Categorie: News
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Dal 15 al 17 gennaio la parrocchia di Ponte Chiasso ha ospitato una tre giorni di riflessione e ricordo sulla figura di don Renzo Beretta a vent’anni dal suo assassinio avvenuto il 20 gennaio 1999. Nella serata di mercoledì è intervenuto anche don Battista Galli, già direttore della Caritas diocesana, di cui vi proponiamo l’intervento integrale.

Vi segnaliamo inoltre lo speciale curato da Il Settimanale Della Diocesi di Como pubblicato sul numero 4 del 24 gennaio 2019. Ringraziamo la redazione del Settimanale anche per la foto di copertina.

Premetto che don Renzo non è tutto qui! Le sue radici dovremo andarle a scoprire nel suo carattere e nella sua personalità, libera e creativa, nella sua spiritualità, nello studio costante del Vangelo,  e altri aspetti della sua vita che altri diranno.

Da parte mia direi che forse per capire don Renzo in quello che era, prima che in quello che ha fatto, potrebbe essere utile risalire ai tempi in cui io l’ho conosciuto e ho vissuto i suoi primi anni di sacerdozio a Livigno, il Livigno di allora, paese povero e isolato  dal mondo per molti mesi all’anno, dal ’48 al ’53, oltre 70 anni fa! Poi l’ho frequentato sempre negli anni successivi, fino agli anni ’90, lui a Ponte Chiasso e io a Como, in Caritas diocesana. Forse don Renzo, comasco da Camerlata, è giunto a Livigno un po’ “alla don Milani” come un emigrante o un profugo, in un paese per lui molto lontano, con altra lingua, altre abitudini, neve e freddo. Accompagnato da sua mamma che teneva tutto il giorno i piedi nel forno della cucina, subito si adattò ad abitare in modo provvisorio, senza alcuna pretesa, cambiando più volte casa, non aveva casa, perché mandato ad aiutare il vecchio prevosto.

Io mi sono affezionato presto come chierichetto, lo sentivamo vicino e schietto, ma senza coccolarci mai, le sue attenzioni evidenti erano per i giovani, proprio alla “don Bosco”:  tanti giovani lo frequentavano sempre e lo seguivano pur essendo lui molto esigente e fermo. Lo ricordo coperto tutto da un enorme mantello nero: quando ci confessava, al gelo dell’asilo, dal mantellone spuntavano  solo due occhietti e nient’altro, per l’assoluzione sbucava per un istante dal mantello la punta della mano destra … Da casa mia gli prestammo una bicicletta da donna, e io la domenica mattina spesso gliela chiedevo per imparare.

Curava molto il coro maschile, ma tutti in paese lo ammiravano, e spesso lo temevano, per le prediche e per il catechismo del pomeriggio: chiarezza, brevità ed energia nel parlare e nel richiamare alla fede e alla coerenza del vivere. Non tollerava il contrabbando, che allora cominciava ad organizzarsi tra sfruttatori e sfruttati: lo denunciava anche in chiesa, ad alta voce, soprattutto perché avrebbe pian piano insegnato  ai figli ad avere guadagno facile e ad agire in modo disonesto. In don Renzo la povertà, prima di essere un servizio ai poveri,  è stata una virtù evangelica, una caratteristica costante di vita e di identità di prete, evidente già a Livigno, come stile di vita sobria e contenta,  frutto di grande libertà interiore, di semplicità e schiettezza di rapporti e di parola, vicino alla gente comune, ricco di umanità e rigoroso di coscienza.., lontanissimo dal ‘noi’ e ‘loro’, vicini e lontani, ‘i nostri’ e gli altri…

A dieci anni entrai in Seminario a Como e solo dopo, seppi che don Renzo aveva lasciato Livigno – o forse era stato allontanato da Livigno per motivi che non conoscevo – col dispiacere di molte persone soprattutto giovani. E solo a Como, dopo vari anni, ci siamo ritrovati a lungo e abitualmente,  lui a Solzago e poi a Ponte Chiasso,  mentre io a Como al San Filippo e nella Caritas diocesana. I rapporti si intensificarono quando don R. si rese conto che Ponte Chiasso stava diventando un punto caldo e drammatico di transito per i profughi e gli irregolari da tanti paesi di guerra, di violenza, di povertà e di disperazione. E lì ho rivisto il don Renzo di sempre: uomo vigilante, attento alle persone, alle situazioni, alle sofferenze e alle ingiustizie: sempre prete, sempre nella Chiesa e con la Chiesa e il Vescovo, ma mai chiuso in sagrestia, nei riti e nelle devozioni,  mai riservato ai propri fedelissimi e ai piani pastorali.

Senza esitazione e senza troppi permessi ha cominciato a capire, ad accogliere, ad ascoltare, ad agire senza riserve, senza dubbi, creando certo qualche serio disagio e incertezza  alle persone più vicine alla vita tradizionale della comunità parrocchiale,  e tuttavia provocando la sensibilità e la generosità di tante persone, più o meno vicine alla fede cristiana, perché collaborassero in tutti i modi all’accoglienza e alla dignità delle persone bisognose.

Non si rassegnava alla situazione dei poveri e ancor meno all’indifferenza dei politici e degli amministratori. Per la responsabilità e la decisione con cui affrontava le situazione umane, don R. esperimentò con sofferenza un senso di solitudine e di incomprensione anche da parte di molti suoi confratelli, dai quali si aspettava non solo comprensione, ma anche collaborazione e appoggio. Mai risentito o intollerante, confidava spesso una sofferenza profonda per l’ambiente di rassegnazione da cui si sentiva circondato.  E qui devo confessare che don Renzo era soprattutto dalla Caritas, e perciò anche da me, che si aspettava solidarietà, riconoscimento e collaborazione, anzi, stimolo ed esempio. Gli incontri tra noi erano molto frequenti e prolungati, compresi tempi di riflessione comune e di mensa.

La Caritas a Como in quegli anni stava facendo un faticoso passaggio da una mentalità assistenziale, ereditata dalla POA, a una mentalità promozionale della persona nel bisogno. La Caritas doveva evitare di isolarsi e di delegarsi a un compito di supplenza alle inadempienze della Stato e della Chiesa.  Sapevo bene, e anche lui sapeva, che Paolo VI aveva voluto la Caritas fin dal 1971 e la voleva “con prevalente finalità educativa”, in funzione quindi di educare la Comunità della Diocesi e delle parrocchie perché la carità diventasse dimensione costante e comune di ogni cristiano. E sapevamo  anche entrambi che mons. Nervo, primo Presidente della Caritas italiana, insisteva perché nel concreto la Caritas non  si limitasse  nell’educare la gente  a parole o a documenti,  ma  assumesse con decisione la cosiddetta “pedagogia dei fatti”, quindi chiedesse alle parrocchie, e la Caritas per prima attuasse,  appunto  la scelta di stare con la gente, con i poveri, ponendo “segni concreti, visibili e convincenti”  per dimostrare che davvero le situazioni si affrontano e, se occorre, si denunciano.

“Sta attento – mi diceva e ripeteva senza riguardo – sono i fatti che educano, non le parole e i discorsi; dà tempo e ascolto alla povera gente, a tutti, senza differenze.. Nel posto che occupi, non lasciarti ingannare e strumentalizzare da chi fa la voce grossa e minaccia.., non preoccuparti dei giornali e non fare chiasso!”.

Don Renzo non si prestava facilmente alle interviste e ai giornali, anzi…  mi diceva anche che spesso i poveri non sono migliori dei ricchi, e quindi il bene non bisogna farlo solo a chi lo merita, ma perché siamo tutti bisognosi gli uni degli altri, e nessuno è migliore! Non riusciva a dare colpe a chi non gli dimostrava riconoscenza, perché sapeva che il povero a sua volta è vittima di un mondo sbagliato, di cui tutti siamo un po’ responsabili.

Così  capivo che la Caritas doveva imparare da preti come don Renzo Beretta e don Renzo Scapolo, che nelle scelte pagavano di persona,  e solo a questo prezzo riuscivano a coinvolgere  la gente e le parrocchie. Io don Renzo l’ho visto e conosciuto così, e lo ricordo così: la sua morte e le ultime parole che pare abbia detto,  quasi giustificando in qualche modo il gesto che lo uccideva  (“..voleva solo spaventarmi..”) ci confermano il cuore  e la fede che ha lasciato in eredità alla Chiesa di Como e a tutti noi. Mi fermo qui, perché credo che don Giusto – che pure è stato come don Renzo vicario novello a Livigno – sappia dirci che cosa oggi ancora  don Renzo possa insegnarci.

Don Battista Galli

già direttore della Caritas Diocesana

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