Pubblicato il: 03/02/2022Categorie: Editoriali, News
Roberto-Bernasconi

3 febbraio 2022 – In questi anni la pandemia ha messo in discussione il nostro modo di vivere all’interno della società, ha dato visibilità a tutte quelle problematiche di prospettive di convivenza che noi singoli, ma soprattutto le nostre comunità, in modo cosciente tenevamo nascoste e non avendo il coraggio di affrontarle vivevamo con l’illusione di essere in una situazione di perenne benessere, di perenne pace sociale.

In questa situazione cristallizzata, la comunità cristiana aveva amplificato, per affrontare le varie fatiche di chi stava ai margini di questo benessere, l’esercizio della carità e in questi anni si è specializzata nel donare generi di prima necessità o di accogliere persone. La carità dalla nostra comunità è stata vissuta un po’ come una coperta che aveva il compito di nascondere tutte le storture che la nostra società produceva e che attraverso la carità trovavano in qualche modo una soluzione.

Oggi invece queste fatiche del vivere ci si presentano in tutta la loro drammaticità e ci stiamo rendendo conto che per affrontarle non basta il nostro servizio di carità.

Non basta aumentare la distribuzione di generi di prima necessità a chi ha il diritto di guadagnarsi il pane; non basta trovare dei posti letto provvisori a chi ha il diritto di avere una casa; non basta offrire lavoro precario e in nero ha chi ha il diritto di guadagnarsi il pane onestamente; non basta accogliere migranti in strutture protette sapendo che hanno il diritto di ricercare quella stabilità di vita, negata nei loro Paesi di origine, stabilità che è fatta di famiglia, scuola, lavoro, vita sociale; non basta indignarsi e cercare soluzioni sui libri di sociologia quando si tratta di affrontare il disagio di tanti giovani, bisogna avere il coraggio di accoglierli, ascoltarli e costruire luoghi in cui possano esprimersi.

Di fronte a questo quadro ci si rende conto del fallimento di un modello di società basato più sul possesso che sulla socialità e lo stesso travaglio per la elezione del Presidente della Repubblica ne testimonia tutta la sua drammaticità. Credo che per noi comunità cristiana sia venuto il tempo di uscire dalle sagrestie per riscoprire il nostro ruolo all’interno della società, incarnando i nostri principi per la riscoperta dell’impegno sociale e politico, impegni che sono la base su cui costruire la dimensione del bene comune.

Per attuare questo cammino di conversione serve da parte nostra uno spirito critico e di osservazione che ci permetta di riconoscere oltre alla povertà materiale le cause vere che la producono; scopriremo allora che la povertà vera – che come il virus del Covid ci sta infettando tutti, singole persone, istituzioni, ma anche la nostra Chiesa – è la povertà morale, la povertà culturale.

Gli elementi che ci servono per compiere questo cammino di conversione li possediamo già tutti. Da una parte c’è la nostra esperienza di vita, dall’altra c’è il riferimento della Dottrina Sociale della Chiesa: “L’amore cristiano spinge alla denuncia, alla proposta e all’impegno delle prospettive culturali e sociali, a una fattiva operosità che sprona tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la sorte dell’uomo a offrire il proprio contributo”. Ciò ci permetterà attraverso la nostra vita vissuta di testimoniare e vivere un umanesimo integrale e solidale.

È importante allora per noi allargare ulteriormente la nostra mente e, accanto alle attività caritative che contraddistinguono l’attività della Caritas, abbiamo il dovere di riscoprire i cardini del vivere civile e che ci permettono di aprire la porta per incarnare nel mondo il messaggio evangelico di salvezza.

Il principio del Bene Comune

La nostra vita oscilla tra l’individualità che ci permette di realizzare le nostre aspettative personali e la necessità di essere aperti agli altri nelle relazioni sociali. Dobbiamo riprendere la capacità di riconoscere i talenti che abbiamo ricevuto sia attraverso l’impegno personale ma soprattutto attraverso il rapporto costruttivo con le persone che la vita ci mette sulla nostra strada.
Talenti da mettere in gioco a favore di tutti. Dobbiamo essere capaci di aprirci in questa ricerca: in famiglia, sul lavoro, all’interno del mondo della cultura, in quello della politica e anche nel vivere in modo corresponsabile la comunità.

La dimensione universale di beni

Dobbiamo avere la lungimiranza di mettere al centro del nostro agire la capacità di vedere nella vita degli altri la dignità che è data loro solo per il fatto di essere uomini e donne con gli stessi diritti e doveri, sapendo superare i limiti che ci poniamo per le diversità, il loro colore della pelle, il loro credo religioso, la loro cultura, la loro condizione economica e quella culturale; è solo riscoprendo queste diversità come ricchezza e non come limite che superiamo la cultura del possesso e riscopriamo quella del dono e della condivisione.
Questo atteggiamento ci può aiutare a vivere pienamente un cammino di sobrietà che ci permetta di riscoprire il vero valore della vita non ancorati all’idea del possesso.

L’opzione preferenziale per i poveri

Non riusciremo mai a comprendere pienamente il perché i poveri devono stare al centro della nostra vita se non proviamo a vivere la dimensione della povertà. Nella nostra Chiesa questo diventa ancora più difficile perché anche in essa la povertà la si affronta sempre da un punto di vista di forza: noi siamo forti perché abbiamo tante cose da distribuire; noi siamo forti perché siamo preparati a rispondere a tutte le difficoltà di chi ci interpella per difficoltà famigliari, educative, di salute; noi siamo forti perché testimoniamo una Chiesa che non ha dubbi ma solo certezze. Per capire e accogliere i poveri dobbiamo sapere sperimentare la povertà che Cristo ci ha indicato con la sua vita.

Il principio di solidarietà

Esiste una solidarietà quotidiana che dobbiamo riscoprire nella vita personale in famiglia, nella società, nei rapporti intergenerazionali; una solidarietà che aiuti a saper riconoscere il ruolo di tutte le forze vive che si impegnano per il bene dell’uomo. Per potere sviluppare questa solidarietà serve sapere cogliere ciò che ti unisce e mettere da parte ciò che divide.
Sto pensando alla solidarietà non vissuta che alimenta la crisi di identità della famiglia, della comunità ecclesiale, del mondo sociale, del mondo politico. C’è poi una solidarietà più ampia che è la solidarietà che dovremmo vivere tra i popoli. Penso che noi cristiani attraverso la dimensione missionaria avremmo tutti gli elementi per poterla esercitare, ma in questi anni alcuni fatti impotanti – prima gli arrivi dei migranti, poi la pandemia – hanno messo a dura prova questa solidarietà.
Mi chiedo: di fronte al grido di dolore di tante persone sfruttate, maltrattate e costrette a fuggire da situazioni di guerra e di miseria, quale è stata la nostra solidarietà? Credo che abbia vinto la paura, che ci ha riportati a vivere l’egoismo di chi non vuole perdere i suoi privilegi.

Il principio di sussidiarietà

La sussidiarietà è sorella della solidarietà; se non si è solidali difficilmente si avrà la capacità di affidarsi all’altro. È impossibile prendersi cura della persona se non si ha la capacità di sapere lavorare in sinergia con tutti, persone, gruppi, associazioni che si dedicano alla promozione della società, perché ognuno di noi ha dei doni che possono dare frutto solo se condivisi e messi a disposizione di un progetto comune. Sto pensando in questo momento ai giovani e a quante energie spendiamo nella ricerca di cammini formativi da dedicare a loro e di come rimaniamo delusi perché il più delle volte non hanno seguito.
Ci siamo mai chiesti il perché?
Una delle risposte possibili è che nei loro confronti non adottiamo il principio di sussidiarietà: non abbiamo il coraggio di coinvolgerli quando formuliamo per loro i nostri progetti formativi, non sappiamo cogliere la novità del loro modo di aggregarsi, il loro bisogno di coerenza, la loro voglia di sperimentare, il loro bisogno di sentirsi responsabili nei loro cammini, la loro necessità di sentirsi ascoltati e valorizzati.

Questi principi elencati non possono rimanere astratti o buoni propositi magari da attuare nei tempi forti del cammino liturgico.
Devono invece essere le linee guida della nostra ferialità, soprattutto per chi vive un percorso di vicinanza all’umanità in difficoltà. Devono sapersi tradurre in scelte di vita concrete ed entrare a pieno titolo nel bagaglio della nostra esperienza di vita.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

Condividi questo articolo

Continua a leggere

Articoli correlati