Pubblicato il: 02/12/2016Categorie: Editoriali, News

2 dicembre 2016 – Dal 2 dicembre sino alla fine di marzo 2017, come avviene da sei anni a questa parte, apre in via Sirtori a Como il dormitorio invernale. La Caritas diocesana affronta così in città la cosiddetta “Emergenza freddo”, organizzando un prezioso servizio di accoglienza notturna per tante persone senza dimora che non trovano ospitalità in altre strutture e che rischiano ogni notte la salute – spesso già precaria – e persino di perdere la vita.

Si calcola che in città questi uomini e donne “a rischio” siano oltre 250. L’anno scorso, nei quattro mesi di apertura del servizio in via Sirtori, hanno trovato accoglienza 143 senza dimora. Sono numeri, inutile sottolinearlo, che danno la dimensione di un fenomeno preoccupante e che di anno in anno aumenta in modo progressivo. Caritas, ancora una volta – grazie al Coordinamento dei servizi per la grave marginalità, ai suoi bravi operatori e al generoso contributo di numerosi volontari – non si tira indietro e sarà disponibile quotidianamente per garantire questo indispensabile aiuto.

Fatta questa doverosa premessa, vorrei mettere in evidenza alcuni numeri che si prestano a varie considerazioni. E a non facili soluzioni. Due su tutte.

La prima: la disponibilità di posti è di circa 40 letti. Quest’anno l’utenza è composta – numero più, numero meno – dal 50% di italiani (in prevalenza cittadini comaschi) e dal 50% di immigrati. Teniamo presente che, in un flusso costante e mutevole ogni giorno, in città giungono una cinquantina di profughi, una parte da Milano (proveniente da ogni dove), una parte espulsa dalla Svizzera.

Ciò è, ovviamente, preoccupante.

Perché la logica ci dice che nelle prossime settimane i posti disponibili potrebbero non bastare; perché non sempre è facile far convivere negli stessi spazi persone di diversa provenienza e cultura; perché ogni giorno occorre inventare nuove modalità di accoglienza rispetto alle nuove necessità (penso ai “nuovi poveri” che risiedono a Como, ma anche ai migranti, che più sovente sono minori non accompagnati o a famiglie con figli piccoli). Come uscirne?

La seconda: in questa costante emergenza non dobbiamo cadere nell’equivoco che fare carità sia dare un aiuto fine a se stesso e quindi “deresponsabilizzare” chi tende la mano perché in difficoltà. Aiutare una persona, invece, vuol dire creare le condizioni affinché ognuno possa essere in grado di percorrere – anche con fatica e grandi sacrifici – un cammino autonomo e responsabile verso la propria “rinascita” (e ciò significa, per esempio, pensare a ricostruire una rete di relazioni, al lavoro, alla casa…). Ciò vale per i nostri fratelli comaschi, ma anche per i nostri fratelli migranti.

Tutto ciò è impossibile? Dobbiamo arrenderci a priori? Oppure, vale la pena mettersi in cammino, combattivi e fiduciosi?

Un ultimo pensiero.

Sul fronte della grave emarginazione e dei flussi migratori che coinvolgono in modo particolare la città di Como e l’intera Diocesi (penso, per esempio, ai recenti arrivi di migranti sul territorio valtellinese) la Caritas farà sempre la sua parte. Ma da sola, messa alla prova delle grandi sfide attuali, tutto è più difficile.

Per questo motivo rinnovo in modo accorato la collaborazione di tutti i soggetti, pubblici e privati, impegnati in questa sfida epocale.

Nella mia personale “agenda dei desideri” mi piacerebbe, per esempio, che la stessa collaborazione che è in essere tra le Caritas regionali di fronte alla tragedia provocata del terremoto del Centro Italia, avvenisse anche tra le amministrazioni comunali per ciò che riguarda l’emergenza profughi.

Se a livello internazionale e nazionale il dialogo è tuttora difficile (o quasi impossibile), non è detto che ciò possa invece nascere ed essere proficuo ai livelli “più bassi”. Per esempio tra Comune e Comune. Tra le diverse istituzioni impegnate in prima linea (per esempio Questura, Prefettura, Croce Rossa…); tra le singole comunità parrocchiali. Tra le associazioni pubbliche e i soggetti privati.

E, a cascata, tra ognuno di noi.

Una collaborazione “virtuosa”. Indispensabile.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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