Pubblicato il: 11/02/2016Categorie: Editoriali, News

11 febbraio 2016 – In tutta umiltà, ma con estrema fermezza, desidero esprimere in queste poche righe il mio pensiero in relazione alla situazione delle persone di diversa nazionalità che da alcuni mesi dormono (alcuni usano il termine “bivaccano”, altri il termine “stazionano”… quasi una presa in giro!) nell’androne di fronte alla biglietteria della stazione di San Giovanni a Como, determinando non poche proteste degli stessi utenti e del personale dello scalo comasco.

Questa presenza dura da oltre quattro mesi e coinvolge una trentina di persone. Sono in prevalenza pakistani e afghani giunti a Como dopo aver attraversato Iran, Turchia, le “rotte dei Balcani”; altre persone sono di etnia Rom, alcuni anche italiani senza dimora, che rifiutano accoglienza nelle strutture presenti sul territorio.

Sono persone che sono “invisibili”, vivono in una sorta di limbo, dove anche la burocrazia non trova “spazi operativi”. Infatti, se avessimo la voglia di conoscere la storia di questi profughi (penso in particolare ai pakistani), dovremmo farli rientrare di diritto nel progetto denominato “Mare Nostrum” e procedere con l’iter per la richiesta di protezione internazionale. Tuttavia, essendo giunti via terra in modo spontaneo (senza rischiare, insomma, di finire annegati in mare) dalle autorità italiane sono considerati “normali” richiedenti asilo e così non possono essere accolti nelle strutture (parrocchie comprese) che in questi anni ospitano e danno una vita dignitosa ai migranti. Il centro di Prestino – l’unico che potrebbe accoglierli – è sempre pieno. Quindi ecco l’alternativa: la stazione di San Giovanni.

La situazione è paradossale sotto tutti i punti di vista. Ci sono profughi di serie A e profughi di serie B. Le istituzioni conoscono il problema, ma non intervengono.

A queste persone si cerca di dare una mano (grazie anche all’aiuto di tanti volontari), offrendo cibo, vestiti, coperte, controlli sanitari e così via. Caritas e la rete delle associazioni “private” cittadine sono sul campo tutti i giorni e concretamente cercano di fare ciò che il “pubblico” non fa.

Del resto, pensare che questi rifugiati spariscano dall’oggi al domani è semplicemente ridicolo. Ciò è il frutto di una mancanza di pensiero e di progettualità a livello europeo e nazionale e uno scollamento tra i poteri politici (Governo, Regioni, Comuni) e i servizi dello Stato a livello locale. Certo, la Prefettura fa il suo “pezzettino” (prende atto, insomma, che sono presenti in stazione e monitora la situazione), la Questura produce il suo pezzo di carta (così queste persone hanno un nome e una provenienza, ma non possono chiedere asilo), il Comune dice che non ci sono attualmente spazi per accoglierli nelle strutture pubbliche.

Di conseguenza, tutti delegano il problema ad altri, cioè a chi sul territorio da anni si assume la responsabilità e il dovere morale di “farsi prossimo” nei confronti di chi fugge dalla guerra, dalla fame, di chi ha perso tutto, di chi è rifiutato dalla società.

Mi si permetta, infine, di raccontare un paradosso nel paradosso. Nelle ultime settimane i funzionari della Polizia ferroviaria tolgono al mattino le coperte usate nella notte dai profughi. Non entro nel merito di questa decisione e delle sue conseguenze. Tuttavia, ricordo che in questo modo è stata messa in discussione l’utilità di un recente “tavolo di lavoro organizzativo”, nato tra tutti i soggetti della città impegnati sul campo, per studiare e coordinare azioni di sostegno e di aiuto. Insomma, un problema nel problema.

Ad oggi, la situazione è in una fase di stallo. L’ennesima.

Che fare? Bisogna saper pensare in modo concreto e agire in modo concreto.

La civile convivenza è solidarietà, è offrire a ogni persona dignità e la possibilità di avere i propri diritti. Quale società costruiamo negando tutto ciò? Di fronte all’indifferenza e al primato della burocrazia sulla ragione, come possiamo dire che l’Italia è migliore di altri Paesi, dove quotidianamente vengono calpestati i più elementari diritti civili?

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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