Don Marco Pagniello, sacerdote pescarese classe 1971, già direttore della Caritas diocesana di Pescara-Penne dal 2006 al 2020, è alla guida di Caritas Italiana dal novembre 2021. In occasione dell’Assemblea in cui ricorderemo il 50esimo anniversario della Caritas diocesana di Como ha accettato di rispondere alle nostre domande.
Direttore, partiamo da questo anniversario. Qual è secondo lei il modo giusto per una Caritas diocesana di celebrare il proprio cinquantesimo?
«Credo sia prima di tutto l’occasione per rendere grazie a Dio per una storia di tanta bellezza, presenza, prossimità. Poi certamente è il tempo per ringraziare quanti, in questi primi cinquant’anni, si sono adoperati affinché tutta la Chiesa si facesse, in maniera strutturata e consapevole, prossima alle persone in difficoltà. Non solo rispondendo ai bisogni, ma facendosi prossimi, accompagnando e includendo. Il cinquantesimo è anche occasione per ribadire quello che è essenziale: noi siamo Chiesa, non siamo un’altra cosa. Lavoriamo insieme a tutta la Chiesa per annunciare la buona notizia il Vangelo attraverso quello che è il nostro stile di vicinanza agli esclusi, agli ultimi, ai poveri, a quelli che rischiano di rimanere ai margini della nostra società e, a volte, anche ai margini delle nostre comunità parrocchiali. Perché non possiamo limitarci a servire i poveri, ma dobbiamo includerli, sono fratelli e sorelle con cui costruire cammini di fraternità».
In vista dell’Assemblea abbiamo condiviso un questionario rivolto non solo al nostro “mondo” ma cercando di raggiungere anche i lontani. Le risposte sono state circa 800. Senza anticipare l’analisi che verrà fatta durante i lavori assembleari mi limito ad un dato: per la maggior parte delle persone Caritas è un organismo che offre aiuti e servizi mentre resta in secondo (o terzo) piano la sua funzione pastorale e pedagogica. Penso sia un tema comune a molte Caritas diocesane: questo è dovuto ad una percezione errata da parte delle persone (e alla difficoltà del mondo Caritas di raccontarsi per quella che è) o c’è il rischio reale di schiacciarsi sulla risposta ai bisogni?
«È evidente: le tante emergenze del nostro tempo ci schiacciano nell’ascolto dei bisogni e quindi veniamo percepiti come meri erogatori di servizi. Questo non mi meraviglia e, sinceramente, non mi spaventa, ma forse questo primo giro di boa può essere l’occasione per ribadire ciò che siamo, per modificare alcune scelte e atteggiamenti così da poter dire con forza che la nostra è soprattutto una funzione pedagogica. A volte io per provocare le assemblee dico che il primo destinatario di una Caritas diocesana non sono i poveri ma è la comunità cristiana. Se ci poniamo come organismo pastorale, se ci concentriamo sulla comunità cristiana in termini di animazione, formazione e accompagnamento anche in un’ottica generativa nasceranno le risposte alle persone in difficoltà. Noi dobbiamo partire dai poveri, ma per costruire comunità. Un’altra scelta è quella di non leggere soltanto i bisogni delle persone che incontriamo, ma anche le loro risorse perché nessuno è così in miseria da non poter dare nulla o non poter diventare protagonista del suo cammino verso un’autonomia maggiore. Terzo passaggio importante è non fare da soli. Negli ultimi anni forse come Caritas abbiamo corso il rischio di diventare autoreferenziali e questo ha portato ad attirare l’attenzione su di noi, sui servizi, ma noi dobbiamo cercare di lavorare insieme agli altri uffici, alle altre realtà perché le risposte siano ecclesiali»
Caritas Italiana in questi ultimi anni sta rafforzando il suo ruolo di voce profetica della Chiesa. Non solo occupandosi dei poveri, ma guardando alle cause strutturali della povertà. Quale ruolo per una Caritas diocesana?
«La Chiesa da sempre ha vissuto il Vangelo della Carità, gli apostoli da subito si sono occupati degli orfani e delle vedove. Per questo dico che non ci inventiamo nulla. Animare la comunità cristiana anche nel saper leggere la realtà partendo dall’ascolto dei poveri. Da qui l’impegno nell’ascolto, nell’advocacy e nel discernimento. Non dobbiamo accontentarci di dare risposte ma anche provare a fare delle proposte per rimuovere le cause delle povertà. Lo dico con una battuta: noi non dovremmo gloriarci di mense che apriamo, ma gloriarci di aver chiuso delle mense. Perché se le chiudiamo vuol dire che, anche grazie al nostro aiuto, qualcosa è cambiato nella nostra società».
Se dovesse fotografare quelle che sono le sfide principali oggi per la Caritas in Italia?
«La sfida più grande è andare verso le periferie esistenziali. I volti della povertà, anche dopo la pandemia, sono diversi e rischiano di essere nuovi rispetto a quelli a cui eravamo abituati: a volte non parliamo di povertà economica, ma di senso. Penso ad esempio agli adolescenti a cui è necessario offrire spazi di fraternità vera. Altra grande sfida è quella della solitudine: una comunità cristiana includente si deve interrogare su come accompagnare gli anziani, le persone che nonostante un lavoro fanno fatica ad arrivare a fine mese. L’altra grande sfida che vedo nel presente è quella di non accettare la delega né all’interno della Chiesa, né dalle istituzioni civili. Nessuno può pensare: “Tanto c’è la Caritas”. Questa è una grande tentazione che riscontriamo all’interno delle stesse parrocchie»
Pensando alle tre vie affidate da Papa Francesco a Caritas Italiana in occasione del 50esimo (primato dei poveri, Parola e creatività dello Spirito) vorrei soffermarmi sulla creatività: quali esempi ha visto in Italia?
«La creatività nasce dal mettere al centro non il progetto, la risorsa, ma il discernimento dello Spirito. Se devo guardare ad un esempio penso a quello delle mense diffuse. Esistono nella Diocesi di Reggio Emilia, ma stanno attecchendo anche altrove. L’idea è quella di aprire piccole mense all’interno delle parrocchie così da avere numeri più bassi e dare la possibilità a volontari e operatori di creare relazioni con loro. In una mensa di cento posti non è facile creare relazioni, in una di dieci, quindici posti si riesce invece a vivere un clima di famiglia e fiducia che porta una persona ad aprirsi in maniera diversa. Questa è una cosa semplice, ma creativa, che credo venga dallo Spirito».
In conclusione ha un augurio da fare alla nostra Caritas, ai suoi volontari e operatori?
«L’augurio è quello di continuare a camminare facendo attenzione che nessuno rimanga escluso: non mi riferisco soltanto alle persone che hanno bisogno, ma alle comunità parrocchiali, ai volontari a cui va il mio grazie e quello di tutta la Chiesa. In una Chiesa di Como che ha delle bellissime figure di uomini e donne che si sono spese per gli altri, una Chiesa che vive il vangelo della carità con forza. Continuate a stare dalla parte dei poveri, non semplicemente a servire i poveri ma a stare con loro per poter crescere con loro».
Intervista a cura di Michele Luppi tratta da Il Settimanale Della Diocesi di Como
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