20 luglio 2023 – Pubblichiamo la testimonianza di suor Elena Balatti, missionaria comboniana originaria della Valchiavenna, sull’attuale conflitto in Sudan che inevitabilmente ha ripercussioni anche sullo Stato del Sud Sudan, dove la religiosa è impegnata nell’assistenza umanitaria a Malakal, il capoluogo della regione dell’Alto Nilo.
Quando il 15 aprile scorso a Malakal, nello stato dell’Upper Nile, abbiamo sentito dello scoppio di un conflitto a Khartoum fra l’esercito del governo militare di Burhan e le milizie del suo vice Hemetti, il primo commento è stato che è impossibile che due eserciti paralleli convivano pacificamente nello stesso Paese. In questo caso si trattava di due formazioni militari, quella nazionale e quella delle potentissime “Forze di Intervento Rapido”.
Nella storia del Sudan indipendente ci sono stati parecchi colpi di Stato, con la violenta presa del potere da parte di gruppi che hanno rovesciato il governo in carica, ma questi sommovimenti sono generalmente avvenuti con un uso limitato della forza, e a volte anche senza vittime.
Come missionari pensavamo dunque che a Khartoum le cose si sarebbero risolte in tempi ragionevolmente brevi. Purtroppo, non solo non è stato così e, a tre mesi di distanza, gli scontri sono ancora in corso, ma la guerra si è rapidamente estesa ad altre regioni del Paese, soprattutto nel Darfur, di cui è originario Hemetti.
La violenza di un conflitto combattuto con abbondanza di mezzi bellici a partire dalla capitale, una città di più di 6 milioni di persone, ha provocato un esodo di massa.
Il confinante Sud Sudan ha immediatamente risentito delle conseguenze. Da fine aprile, decine di migliaia di persone hanno cominciato a varcare il confine e ad oggi il loro numero potrebbe aggirarsi sulle 200.000 unità, in maggioranza cittadini sud sudanesi costretti dalle circostanze a un rimpatrio forzato.
Il Sud Sudan, che sta cercando di lasciarsi alle spalle la propria guerra civile, che ha una situazione economica fragilissima e ha sperimentato disastrose alluvioni legate al cambiamento climatico mondiale, è stato colto impreparato da questa ulteriore crisi.
Il governo di Juba, tuttavia, ha prontamente dichiarato che tutti i propri cittadini in fuga dal Sudan erano benvenuti nella loro patria e si è anche mostrato pronto ad allestire campi di accoglienza per i rifugiati sudanesi che lasciavano il loro Paese e per persone di altre nazionalità.
La regione dell’Alto Nilo, di cui Malakal è capoluogo, ha visto un numero massiccio di rimpatri data la distanza relativamente breve della frontiera da Khartoum. Le persone che attraversavano il confine con il Sud Sudan arrivavano spesso senza mezzi, a parte pochi effetti personali. In vari casi avevano speso cifre ingenti per riuscire ad arrivare alla frontiera, e si trovavano dunque in una situazione di indigenza. I loro bisogni primari erano il trasporto dal confine alle loro aree di origine, cibo e un riparo temporaneo. Insieme con l’Organizzazione Internazionale per i Migranti (IOM) e all’UNHCR, l’agenzia ONU per i Rifugiati, la Chiesa Cattolica sud sudanese ha prontamente tentato di intervenire, particolarmente attraverso la propria Caritas. L’ufficio Caritas della diocesi di Malakal, in cui io lavoro, ha messo a disposizione il barcone da 80 tonnellate che viene utilizzato per trasportare materiali e aiuti alimentari. In questo caso ha trasportato persone lungo il fiume Nilo, un po’ più di 2.000 fino a oggi, dalle zone di confine verso le loro aree di origine.
Un altro intervento importante all’arrivo dopo due giorni di viaggio in barca è un pasto caldo. La solidarietà di gruppi cristiani ha permesso di offrire un limitato aiuto in questo senso, in una situazione dove anche le più grosse organizzazioni internazionali come il PAM (Programma Alimentare Mondiale) si trovano in difficoltà a sopperire a questi nuovi bisogni perché oltre alle migliaia di profughi dal Sudan devono considerare i pre-esistenti sfollati a causa di conflitti locali e delle alluvioni. Quando i profughi ripartono in barca dal campo di transito di Malakal verso le loro destinazioni finali ricevono dei teli di plastica per ripararsi dalle precipitazioni della stagione delle piogge che possono causare polmoniti e altre malattie pericolose, specie per i bambini.
Varie volte ho visitato il campo di transito per i profughi che da Khartoum arrivano a Malakal. L’immagine della miseria che la guerra provoca è evidente. Varie persone, soprattutto anziane, appaiono stremate dal viaggio, dallo shock e dagli stenti. Purtroppo in questi anni abbiamo visto di frequente scene del genere, particolarmente nella regione dell’Alto Nilo. Queste scene sono l’altra faccia della guerra. Chi dà inizio a un conflitto adduce sempre le proprie ragioni. Nel caso delle milizie di Hemetti, il loro gruppo etnico è stato a lungo discriminato dal Governo centrale di Khartoum. Comunque il ricorso alla violenza per “risolvere” un problema, difficilmente si rivela una soluzione. Una guerra genera spesso altre guerre. Il rischio di regionalizzazioni che si estendono e vanno a confermare l’immagine della “guerra mondiale a pezzi”, di cui ci avverte Papa Francesco, è sempre una possibilità. La presenza negativa e ambigua del gruppo mercenario Wagner in Sudan, così come in Ucraina, ci deve far riflettere. Ci sono dei poteri distruttivi e ramificati che operano nel nostro mondo. Quando qualcuna delle loro azioni viene alla luce è solo la punta di un iceberg sommerso fatto di lotte di potere e di interessi economici a servizio di pochi e non certo per il bene comune.
Nonostante tutto, dunque, non stanchiamoci di pregare con fiducia per la pace, la nostra arma.
Suor Elena Balatti, missionaria comboniana
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