Massimiliano Cossa, operatore e per lungo tempo direttore della Fondazione Caritas, ha lasciato la Caritas diocesana a fine gennaio 2025. In questa lunga intervista – tratta dal numero di aprile 2025 della rivista Storie di Caritas –  ripercorriamo assieme a lui questa preziosa esperienza professionale e umana

Massimiliano, raccontaci un po’ la tua storia in Caritas…

«Sono stato assunto in Caritas nel dicembre 2001 e sono diventato dipendente della neonata Fondazione Caritas Solidarietà e Servizio Onlus dal febbraio 2002. Allora era direttore don Daniele Denti, subentrato proprio in quei mesi a don Battista Galli. Quindi ho vissuto l’esperienza Caritas sia a livello umano sia professionale per ben 23 anni… una vita! Allora la Caritas diocesana aveva solo 4 dipendenti, oggi la Fondazione conta circa 30 operatori assunti. Il mio impegno all’inizio è stato al Centro di Ascolto di Como, dove ho svolto il ruolo di coordinatore circa 7 anni, poi nel corso degli anni mi sono occupato di comunicazione, dell’Osservatorio delle povertà, dell’area internazionale… ho seguito anche la nascita delle cooperative “Si può fare” e “Symploké” e, negli ultimi anni, la realizzazione del progetto della mensa di solidarietà di Casa Nazareth».

 Com’è stato, per un ex impiegato di banca, l’impatto con il Centro di Ascolto?

«Andare al CdA, incontrare persone che vivevano numerose difficoltà, mi ha un po’ aperto gli occhi. È cambiata la visione della vita, del mondo, della mia città. Il ricordo del Centro di Ascolto è molto bello, un servizio che mi ha sempre molto appassionato. Contemporaneamente all’impegno al CdA ho seguito nei primi anni anche l’area internazionale. Ricordo nel 2008 l’esperienza in Sudan con il missionario comasco Matteo Perotti, il viaggio in Bangladesh dove padre Paggi portava avanti progetti con i tribali Munda. E poi l’esperienza più gratificante e coinvolgente in Argentina nell’anno 2003 l’incontro con padre Pepe, grazie a don Umberto Gosparini, per seguire il progetto per la realizzazione del Centro giovanile Daniel della Sierra. In questo percorso di animazione una figura per me fondamentale, un mio “maestro” è stato don Rocco Acquistapace».

Massimiliano Cossa (terzo da sinistra) con alcuni colleghi

Poi nel 2011 la svolta “epocale” che ha cambiato la storia di Caritas…

«L’arrivo dei profughi dalla Libia nel 2011 ha cambiato la storia della Caritas, perché ci ha spinto ad un coinvolgimento operativo più forte dando il via a quel processo di espansione che ci ha portato dove siamo oggi. Ecco, quindi, la decisione di creare due cooperative impegnate sul territorio per gestire l’accoglienza: nel 2015 la Cooperativa Symploké a Como e, nel 2016, la Cooperativa Altra Via a Morbegno per l’accoglienza dei profughi in provincia di Sondrio. Mi piace ricordare, a questo proposito, il ruolo decisivo del direttore Roberto Bernasconi.

Che ricordo hai di lui?

Roberto ha demolito, con il suo stile semplice e genuino, muri di divisione tra i vari soggetti, pubblici e privati. Proprio queste sue doti gli hanno permesso anche di creare la Cooperativa sociale “Si può fare”, tuttora attiva a Como».

Nei tuoi anni alla direzione della Fondazione hai assunto molti colleghi. Quali sono, secondo te, le caratteristiche che deve avere un operatore Caritas?

«La prima considerazione è che la forza della professionalità in Caritas è data dalla preziosa sinergia con la figura del volontario. Una Caritas di soli professionisti non avrebbe un futuro. Il volontariato è ancora oggi numericamente la forza prevalente in Caritas. Tutti i servizi non potrebbero esistere senza di loro».

Come gestivi personalmente la selezione del personale da assumere?

«Pochissime volte ho basato la mia scelta guardando il curriculum della persona, perché ritengo che la formazione professionale sia importante, ma in Caritas è importante tanto quanto la formazione umana che avviene al di là della formazione scolastica. È ciò che è successo a me, è quello che è successo all’attuale direttore della Caritas, al vicedirettore, all’attuale direttore della Fondazione, al responsabile di Casa Nazareth… è un percorso che accomuna tante persone provenienti da altri settori lavorativi. Dirò di più: la carità e la Caritas sono due cose distinte: la carità è una cosa che riguarda tutti, potenzialmente, e che possiamo sperimentare in mille forme. La Caritas, invece, è il tentativo di organizzare delle opere di carità in modo strutturato e continuativo. Lavorando sulla complessità. Lo abbiamo visto chiaramente durante l’emergenza Covid: in un momento di estrema difficoltà di tutta la società, alla Caritas è stato chiesto di fare molto di più, e non si è tirata indietro».

Foto di gruppo in occasione del 50esimo della Caritas diocesana di Como

Cosa ricordi in modo particolare di quel periodo?

«Sono state mesi drammatici. Quando il mondo si è letteralmente “chiuso” ci è stato chiesto dall’ente pubblico di ampliare i nostri servizi 24 ore al giorno, pur non avendo minimamente gli spazi e il personale per farlo. In quei giorni abbiamo sperimentato veramente l’azione della Provvidenza, perché abbiamo fatto convivere giorno e notte oltre 100 persone in spazi limitati e nessuno si è ammalato».

Oggi è più complicato rispondere alle sfide rispetto al tempo del tuo ingresso in Caritas?

«Non credo; sicuramente oggi la società è più complessa, però ciò che serviva 20 anni fa è quello che serve oggi ed è quello che servirà tra 20 anni: soprattutto tanta umanità, poi sul campo ti crei le giuste competenze, facendo affidamento al lavoro in équipe, affiancandoti professionisti esterni generosi e capaci, una peculiare e imprescindibile caratteristica del lavoro in Caritas».

La mensa solidale di Casa Nazareth è un servizio che ha caratterizzato il tuo ultimo periodo in Caritas…

«Penso che sia fondamentale riconoscere che Casa Nazareth esiste perché l’ha desiderata e voluta fortemente Roberto Bernasconi. Con caparbietà e lungimiranza ha poi coinvolto tanti soggetti – penso alle suore guanelliane, all’Associazione Incroci e, in particolare, a padre Francesco Gonella della Casa della Missione vincenziana di via Tatti – che tuttora portano avanti questo progetto così importante per la città. Dal canto mio, io non mi prendo meriti particolari se non quello di essere riuscito a far sì che un bel progetto camminasse bene dal punto di vista organizzativo e relazionale».

Massimiliano con i rappresentanti degli enti coinvolti nella gestione della mensa di Casa Nazareth

Pensi che Casa Nazareth possa essere una “palestra” per approfondire e sperimentare altri ambiti strategici per il mondo della carità?

«Sì certamente. La mensa di solidarietà è un progetto che andava fatto conoscere: ecco perché ho curato in modo particolare la comunicazione con i miei colleghi dell’équipe Caritas. Non possiamo poi dimenticare il sostegno economico a questo servizio – che ha un costo di circa 300mila euro all’anno – con l’importante attività di fundraising, volta a sensibilizzare e curare i donatori anche per far fronte al calo costante dei ricavi dall’8xmille per la Chiesa cattolica. Questo ambito ci vede impegnati anche nella realizzazione di eventi nel corso dell’anno proprio per creare costante attenzione e visibilità alla mensa sul territorio».

Il fundrasing è diventato negli ultimi anni un elemento strategico anche per Caritas?

Comunicazione e promozione del dono sono due ambiti strategici e sono oggi inscindibili. Questo vale per tutti i servizi della Caritas diocesana. Lo slogan “Aiutaci ad aiutare”, che spesso utilizziamo, fa comprendere il nostro intento: coinvolgere più persone possibili a stare “in prima linea” con noi per aiutare tutti coloro che hanno più bisogno».

Lasci Caritas dopo 23 anni belli e intensi. Cosa ti senti di dire?

«Il mio desiderio è di ringraziare di cuore i direttori don Battista, don Daniele, Roberto e l’attuale direttore Rossano Breda che mi hanno accompagnato. Poi i miei colleghi, tutti collaboratori veramente validi sia professionalmente sia umanamente. Lascio una “squadra” coesa e motivata. Ma una persona su tutte vorrei ringraziare in modo particolare: è il presidente della Fondazione Caritas, l’avvocato Mario Luppi. Una persona che, grazie alla sua umanità e grande professionalità, mi ha insegnato tantissimo».

Massimiliano, ma alla fine perché hai deciso di lasciare Caritas, di… cambiare vita?

«Diciamo che a un certo punto mi sono sentito svuotato di energie. Già nel 2022 avevo chiesto una riduzione di orario che è stata subito vanificata dall’inaspettata morte di Roberto e dal mio temporaneo affiancamento al nuovo direttore di Caritas, Rossano. Successivamente, dopo essere stato sostituito da Simone Digregorio alla direzione della Fondazione, ho chiesto di diminuire l’orario fino alla definitiva decisione di uscire. In questa fase della mia vita sto riscoprendo il gusto di fare il papà in modo più presente accompagnando la crescita dei miei figli Davide e Gabriel nel mondo e sto sostenendo mia moglie Bianca nell’espansione della sua attività di aiuto alle persone. Con Caritas resta un legame di amicizia inscindibile, rimango molto legato a questo ambiente e continuerò a frequentarlo».

Michele Luppi
Claudio Berni

Leggi, scarica e diffondi  “Storie di Caritas”
AIUTACI AD AIUTARE

Condividi questo articolo

Continua a leggere

Articoli correlati