2 luglio 2016 – In queste ultime settimane si moltiplicano i progetti per risolvere i problemi legati all’accoglienza dei migranti che giungono sul territorio italiano.
Tra questi si segnala la sottoscrizione di un protocollo tra la Prefettura di Vicenza e 21 Comuni dell’Altovicentino per dare migliore ospitalità ai richiedenti asilo. L’obiettivo è di garantire un’accoglienza diffusa ad ampio raggio sul territorio (massimo 2 migranti per 1.000 abitanti); e di dare la possibilità ai Comuni, in dialogo con le rispettive Prefetture, di scegliere enti gestori seri, evitando di trovarsi poi in balìa di enti che agiscono unicamente per lucro e sprovvisti delle professionalità minime per garantire un’accoglienza dignitosa e “in dialogo” con il territorio.
Di fronte ai goffi e inumani tentativi di esternalizzazione delle frontiere, sempre a carico di Paesi essi stessi teatro di fuga da parte dei propri abitanti a causa di condizioni di vita poco sostenibili per povertà o per mancanza di diritti umani “minimi” (vedi, ad esempio, il Niger, il Marocco o la Turchia), c’è da sperare in una immediata revisione della normativa sulla Protezione Internazionale che, come è ormai noto, si rifà alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al protocollo di New York del 1967. Senza entrare nel merito di una materia estremamente complessa, si trattava sostanzialmente di una risposta, elaborata sulla scorta degli enormi crimini perpetrati dalle dittature europee durante il secondo conflitto mondiale, alla situazione creatasi al termine del conflitto, ossia alla contrapposizione esistente a livello mondiale tra i due blocchi occidentale e orientale.
Non è difficile intuire quanto uno strumento simile possa rivelarsi inadeguato più di 50 anni dopo, quando lo si impieghi per dare una risposta a esigenze del tutto diverse a livello mondiale. Tant’è che già in seguito alle migrazioni degli anni Novanta causate dalle guerre balcaniche i Paesi dell’Europa occidentale si sono visti costretti a ideare e applicare nuove e diverse forme di protezione internazionale, al di fuori di quelle classiche previste dall’Onu. Oggi, a vent’anni dalle guerre balcaniche e di fronte a movimenti migratori di questa portata, è doveroso interrogarsi sull’inadeguatezza della normativa che regola la concessione della protezione internazionale.
Accade infatti che, come sottolinea Franco Valenti, «una normativa che prevede la garanzia di tutela e protezione solo per singoli individui che possano dare una narrazione coerente e credibile nei nessi causali che hanno determinato una loro personale e continuativa condizione di perseguitati, o, in subordine, a color che fuggono da zone di conflitto armato certificato da siti informativi istituzionali di segreterie di Stato, in particolare statunitense o inglese, lascia messe intere di persone in estremo rischio di morte in balìa della discrezionalità dei singoli Stati».
Le motivazioni di questa situazione, che ha portato nel 2015 a una crisi continentale vissuta come epocale e senza precedenti dai tempi del secondo conflitto mondiale (sebbene l’Europa abbia accolto nel 2015 un flusso di richiedenti asilo corrispondente allo 0,3% della propria popolazione), risiedono proprio nel fatto che il dispositivo normativo non è più adatto a gestire efficacemente l’attuale mobilità dei fuggitivi.
L’unica via di uscita che paia in grado di scongiurare il rischio della creazione di eserciti di milioni di persone che vaghino da un Paese all’altro, una sorta di zombie sociali in cerca dello spiraglio giusto per legalizzare la propria posizione, sembra essere il concretizzarsi, da parte dell’Europa, di una visione condivisa – che è del resto parte del patrimonio comune europeo, delle sue tanto discusse “radici” – secondo cui il fuggire dalla morte a causa di povertà, il desiderio di avere accesso all’istruzione o alla tutela della propria salute siano diritti riconosciuti a qualunque essere umano, muovendosi così verso il riconoscimento di nuovi paradigmi di protezione che equiparino il rischio di morire per un colpo di fucile a quello di morire di fame, di stenti o per la mancanza o carenza di cure sanitarie adeguate.
Parte da questa considerazione e, in particolare, dal progetto vicentino il tema del nuovo editoriale del direttore della Caritas diocesana di Como, Roberto Bernasconi:
L’idea di distribuire i migranti sull’intero territorio comasco e della Diocesi in modo uniforme e, soprattutto, senza creare assembramenti nelle strutture di accoglienza è l’obiettivo prioritario che cerchiamo di perseguire ogni giorno. Ma, come sempre, tra il dire il fare c’è di mezzo il mare. Infatti, se vogliamo realizzare questo progetto anche nella nostra realtà deve essere sancito un chiaro accordo tra la Prefettura e i sindaci. Tra una Prefettura (che sappiamo disponibile) e tutti i sindaci (che purtroppo – e sono la maggioranza – non sono propensi a prendere questo tipo di decisione). Per fare un esempio, nella nostra Diocesi alcuni sindaci sono apertamente contrari anche all’accoglienza fatta dalla Caritas nelle parrocchie. Questo atteggiamento – a mio giudizio – è miope perché scarica le responsabilità proprie di un amministratore locale su altri e, peggio ancora, crea le condizioni di aprire il territorio ad accoglienze non qualificate e legate a un mero motivo economico. Tutto ciò rappresenta un problema latente di difficile controllo.
Credo, invece, che questo protocollo ideato a Vicenza garantisca la possibilità di un’accoglienza diffusa (che evita assembramenti e centri sovraffollati) e la possibilità di un controllo maggiore degli Enti che ospitano i migranti, garantendo un servizio attivo, fatto di umanità e anche di opportunità formative e lavorative.
Infine, mi permetto di evidenziare un ultimo aspetto. Sono convinto che l’atteggiamento di chiusura del nostro territorio su questi temi così scottanti e urgenti è spesso effetto di una miopia politica ed etica dei nostri amministratori, ma soprattutto è frutto dell’incapacità – o mancanza di volontà – di lavorare insieme. Insomma, ognuno di noi cura il proprio orticello senza badare al prossimo, mettendo le mani davanti a occhi e turandosi naso e orecchie. Questo atteggiamento non ci porta da nessuna parte.
Purtroppo.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
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