Pubblicato il: 04/01/2018Categorie: Editoriali, News

4 gennaio 2018 – Nell’ambito della Giornata della Pace, celebrata il 1° gennaio 2018, la sera del 31 dicembre 2017 il vicariato di Como Centro ha vissuto una Veglia di preghiera per la Pace, presso la basilica di San Fedele. Riportiamo un ampio stralcio dall’intervento del direttore Caritas diocesana, Roberto Bernasconi, che ha sottolineato nel vissuto diocesano i verbi di azione declinati da papa Francesco nel suo Messaggio annuale.

«Con il messaggio per la Giornata mondiale della Pace, papa Francesco esprime in modo netto questo bisogno di pace che però può realizzarsi solo se noi, con le nostre scelte di vita, diventiamo strumenti di pace.

Lui ci aiuta indicandoci alcuni verbi che sta a noi riempire di contenuti.

ACCOGLIERE.

Che cosa è l’accoglienza nella nostra città? Innanzitutto è conoscenza vera di chi è arrivato tra di noi e di chi da sempre tra di noi vive la strada o la povertà estrema. 1.300 sono i migranti, 250/300 sono le persone senza dimora, 450 sono le famiglie che hanno bisogno del nostro Centro di Ascolto.

La domanda che ci dobbiamo porre è: la nostra è accoglienza o ospitalità? Chi è accolto entra a far parte a pieno titolo della nostra città e può esprimere ciò che sono le sue esperienze di vita, le sue fatiche ma, soprattutto, le sue difficoltà le sue povertà, perché possano diventare esperienze comuni; invece, chi è ospite è aiutato, è tollerato e diventa semplicemente strumento nelle nostre mani per esercitare il nostro desiderio di filantropia.

PROTEGGERE.

In che modo mettiamo in atto la protezione di questi fratelli e sorelle che arrivano da noi o che stanno nella nostra città da sempre e che sono alla berlina di chi vuole sfruttare la loro condizione per arricchirsi?

Sto pensando in questo momento ai passatori, agli “spacciatori”, a chi induce le ragazze e i minori alla prostituzione, a chi propone loro lavoro in nero, a chi li illude che trovando strade alternative alla legalità possono raggiungere i loro sogni: questi sfruttamenti sono presenti in modo concreto nella nostra città. Liberare dalla schiavitù le persone che cadono preda di questi operatori di “guerra” è compito nostro: noi dobbiamo aiutare chi rimane invischiato in questi percorsi di male a uscirne e possiamo farlo se abbiamo il coraggio di denunciare chi delinque, ma soprattutto se in modo netto indichiamo e percorriamo noi per prima la strada della legalità, che è stretta e difficile da percorre, ma è l’unica che ti dà una possibilità vera di futuro.

PROMUOVERE.

Chi vive nella nostra città una condizione di marginalità arriva a questa condizione anche a causa di alcune carenze culturali e sociali che li porta a vivere ai margini, a sentirsi inadeguati, a considerarsi cittadini di serie “B”. Promuovere, allora, vuol dire mettere a disposizione possibilità di istruzione: le varie scuole di italiano attive sul territorio, aiutano almeno 500 persone a conoscere la nostra lingua; inoltre, sono più di 300 le persone che hanno imparato un mestiere attraverso i corsi professionali organizzati con la collaborazione di associazioni e privati.

Promuovere per la nostra città vuol dire mettere a frutto le capacità di tante persone che, attraverso la mediazione culturale aiutano a comprenderci; vuol dire anche dar spazio e possibilità di esprimersi a chi attraverso lo spirito di intraprendenza vuole impegnarsi in mestieri o professioni che spesso i nostri giovani scartano perché ritengono faticose o poco dignitose.

INTEGRARE.

Questo verbo per noi è ambivalente. Per una parte della nostra città, integrare vuol dire che questi nostri fratelli devono adeguarsi ai nostri usi sia sociali sia religiosi; per l’altra parte significa spingere questi fratelli a far proprie le battaglie sociali e politiche che non sono loro. L’arricchimento reciproco di cui parla il Papa, per poter attuare un’integrazione vera, deve allora metterci in atteggiamento di ascolto, le nostre comunità cristiane devono superare la paura del diverso, del nuovo.

Pensate a quante persone che arrivano da noi e, pur essendo cristiane, non possono soddisfare la loro esigenza di vivere la fede in una comunità e non solo in modo personale. Questo fa paura a noi che la vita la viviamo in compartimenti stagni, di solito fede e parte spirituale per noi non hanno nulla da vedere con il resto della nostra vita.

Se avessimo il coraggio di un’accoglienza vera, aiuteremmo la città a non avere paura di chi chiamiamo diverso, riusciremmo a instaurare un dialogo sincero e produttivo anche con chi pratica una fede diversa dalla nostra, e riusciremmo a capire che l’interazione può esserci nella misura in cui il sentimento di fiducia diventa prioritario all’interno della nostra Chiesa e della nostra città. Fiducia soprattutto nei fratelli e nelle sorelle che vivono con noi e che sono a tutti gli effetti – anche se diversi di pelle o di cultura – figli di Dio».

(Testo tratto da: www.settimanalediocesidicomo.it)

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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