Pubblicato il: 13/07/2013Categorie: Editoriali, News

13 luglio 2013 – Otto luglio 2013: Papa Francesco a Lampedusa. Quei fiori gettati in mare. La sua presenza mite e serena. La messa celebrata con i migranti da quell’altare spoglio, simbolo di mare e di vita. E, poi, quelle parole semplici e forti che ci hanno toccato il cuore e ci fanno ancora riflettere: «Preghiamo per avere un cuore che abbracci gli immigrati. Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi».

Ecco, mi piace ricordare così – a pochi giorni da quell’evento che ha segnato in modo indelebile la mia e le nostre coscienze – il primo viaggio ufficiale fuori Roma del Papa. Un viaggio breve – se pensate – ma altamente simbolico, prezioso. Profetico.

Lampedusa è stata ed è terra di approdo per centinaia e centinaia di nordafricani in fuga dalla guerra e dalla fame. Vengono da noi perché non hanno alternative e qui cercano libertà e, soprattutto, accoglienza. L’accoglienza è l’esatto opposto dell’indifferenza, una parola che lo stesso pontefice ha usato più volte durante la sua visita nell’“isola della speranza”. Un monito che richiama tutti alla responsabilità fraterna che dà senso alla nostra vita di uomini e di cristiani.

Papa Francesco a Lampedusa, profugo tra i profughi. Papa Francesco che rimette al centro l’uomo e rilancia una Chiesa che deve avere la capacità di parlare all’uomo. Di carità. Di giustizia. Di misericordia. Con i fatti.

Papa Francesco a Lampedusa è un fatto. “Il” fatto. Da cui non si può tornare indietro.

Mi piace, a questo punto, ricordare la nostra esperienza di accoglienza fatta in questi due anni in Diocesi. A Como e a Sondrio, dal lontano aprile 2011, la Caritas – in collaborazione con le Acli, le parrocchie, le istituzioni e tante persone di buona volontà – ha accolto circa 120 profughi fuggiti dalla Libia in guerra. Nella nostra realtà sono arrivati tunisini, pakistani, ivoriani, nigeriani, ghanesi, sudanesi, afghani… uomini, donne, bambini che sono stati ospitati e accompagnati nell’iter burocratico – non breve e non certo facile – per ottenere lo status di rifugiato politico, o per motivi umanitari. Nel frattempo ci siamo mobilitati perché potessero rendersi autonomi, imparare la lingua, un lavoro. Due di loro hanno persino trovato un’occupazione a tempo indeterminato.

Questa esperienza non è stata facile. Un cammino spesso in salita, fatto di ostacoli burocratici (quando avremo leggi per permessi più seri e più veloci?), diffidenza, insofferenza, indifferenza. Eppure, non ci siamo arresi. Abbiamo saputo gestire l’emergenza iniziale e abbiamo saputo cogliere, giorno dopo giorno, l’opportunità di una crescita reciproca con questi nostri fratelli.

Oggi ci sentiamo più ricchi, più consapevoli, anche più capaci e pronti a future esperienze di questo tipo.

Grazie, Papa Francesco, per averci ricordato che abbiamo fatto il nostro dovere di cristiani.

E che non dobbiamo mai scoraggiarci ad aiutare chi è più sfortunato di noi. Mai.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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