Pubblicato il: 13/12/2014Categorie: Editoriali, News

13 dicembre 2014 – Mi sembra doveroso, dopo circa otto mesi di impegno per accogliere nel territorio della Diocesi oltre 260 profughi provenienti dalle zone di guerra e di povertà, fare delle considerazioni che possono servire innanzitutto per riscoprire i fondamenti che supportano l’attività della Caritas nell’affrontare questa realtà a nome della nostra Chiesa diocesana, ma soprattutto per contribuire alla formazione di proposte concrete e far sì che il nostro Paese cambi prospettiva di fronte a questa accoglienza, che rischia di diventare – se non si evolve – un passaggio che porta la maggior parte delle persone che accogliamo alla clandestinità.

Per non parlare, inoltre, dello sfaldamento della società che sempre di più rischia di richiudersi in se stessa, pronta a emarginare chi è diverso o chi è in difficoltà.

Prima di iniziare questa analisi, sento il bisogno di ribadire la validità della scelta di accoglienza che abbiamo intrapreso, che è sì difficile (piena di incognite e non condivisa fino in fondo da buona parte della comunità civile e purtroppo anche da una parte della nostra comunità ecclesiale), ma è una scelta doverosa per noi e dobbiamo affrontarla nel migliore dei modi.

Sento, allora, il bisogno di affermare in modo inequivocabile che la nostra disponibilità all’accoglienza non ha voluto essere assolutamente una supplenza a uno Stato che non è attrezzato a supportare in modo razionale questo dramma. Lo abbiamo fatto con grande responsabilità; tuttavia è inequivocabile che concretamente siamo di fronte a una realtà che – al di là della raccolta delle persone dai barconi (la famosa operazione “Mare Nostrum”) – nella quotidianità dell’accoglienza concreta sul territorio a tutti i livelli il potere politico è spesso inadempiente.

Lo Stato è assente (per usare un eufemismo) a livello regionale, provinciale e comunale, e non è stato in grado di mettere a disposizione strutture che pur esistono e sono vuote (vedi caserme e altre strutture sul territorio) e non è capace di elaborare idee su come sviluppare questa accoglienza.

La nostra disponibilità all’accoglienza – come abbiamo ricordato più volte in questi mesi – è stata immediata e senza ripensamenti per rendere concreti gli insegnamenti ricevuti dalla Parola di Dio e per mettere in pratica gli inviti alla solidarietà fraterna del Magistero del Papa e dei Vescovi.

Ribadisco con forza che la nostra azione ha voluto essere una concretizzazione di questo invito che il Magistero ci ha suggerito; ci siamo messi a disposizione di questi uomini e di queste donne (spesso famiglie intere con figli piccoli) in fuga da situazioni di vita invivibili sia per le guerre sia per l’assoluta miseria delle loro nazioni di origine. Li abbiamo accolti non per un fatto economico, non per supplire a una mancanza di iniziativa da parte di chi lo dovrebbe fare per dovere, ma per rendere concreto l’amore che Cristo ha donato a tutti gli uomini partendo proprio dagli ultimi.

Insomma, per noi è stata ed è una questione di giustizia.

Tutto questo ci sta facendo riflettere sulle positività ma anche sulle negatività e sulle occasioni perse che questa accoglienza ci ha portato a vivere.

Positivo è stato l’impatto con le persone che sono arrivate con il loro carico di dolore e di speranza; abbiamo imparato dal vivo a condividere tutto questo superando lo scoglio della lingua, delle culture e delle diverse religiosità di ogni persona.

Positiva è stata l’opportunità di sinergia nell’accoglienza della Caritas diocesana con altre associazioni confessionali e non operanti sul territorio, congregazioni religiose e volontari di tutte le estrazioni sociali che si sono messi a disposizione per l’accoglienza.

Positivo è stato il rapporto di fiducia e di collaborazione instaurato con le forze dell’ordine e le prefetture, che a mio parere stanno svolgendo il loro compito in modo molto professionale.

Positivo è stato il rapporto di collaborazione con le parrocchie, che hanno avuto il coraggio di “mettersi a disposizione”, anche se per attuare questa accoglienza hanno dovuto superare spesso l’opposizione o i dubbi di chi era contrario.

Positiva è stata la riflessione comune di tutte queste entità nel saper raccogliere idee e proposte per guardare oltre all’emergenza, per contribuire in modo attivo nella costruzione di uno stato sociale che è basato non sul Pil da raggiungere, bensì sulla integrazione vera delle persone.

Tuttavia, anche le negatività non vanno nascoste ma riconosciute, analizzate e affrontate a viso aperto; altrimenti c’è il rischio concreto che possano far fallire una esperienza bella di accoglienza vera.

Detto ciò evidenzio che esiste una negatività interna a noi, ma anche una esterna.

Negatività interna è stata la paura del nuovo, la paura del diverso, l’attaccamento a presunti privilegi che si rischiano di perdere se si ha il coraggio di avvicinarci al prossimo, la paura dell’altro che non conosciamo e che quindi può essere potenzialmente destabilizzante per la nostra comunità.

Fondamentalmente è la paura di vivere e di confrontare la nostra vita vissuta con il mondo che di solito siamo sempre più abituati a giudicare e sempre meno ad accogliere.

Negatività esterna, dovuta alla non chiarezza del cammino da percorrere con i profughi.

C’è un rimpallarsi di responsabilità che impedisce di attribuire a persone o a enti ben individuati la responsabilità di determinate scelte. Ciò ha portato a un disimpegno politico in senso alto da parte delle autorità locali – Regione, amministrazioni provinciali, Comuni – che anche per questo motivo si sono spesso chiamati fuori dall’accoglienza.

Negatività da parte dei poteri burocratici dello Stato, e questi poteri non sono anonimi, sono persone ben individuabili che per tranquillità non si prendono mai delle responsabilità e si nascondono dietro l’interpretazione personale delle leggi.

Spesso questa situazione ha portato a un vero e proprio stallo decisionale che non ha permesso, per esempio, di mettere a disposizione dell’accoglienza strutture che da anni – come ho già detto – sono vuote; uno stallo che allunga con tempi biblici la valutazione delle storie delle singole persone per avere i permessi, e li costringe a “sopravvivere” nei vari centri di accoglienza.

Negatività da parte degli organi di informazione, che sovente sono poco obiettivi sul fenomeno migratorio e sulle modalità di accoglienza, e quindi danno un’informazione non corretta, molte volte distorta.

Negatività da parte del mondo dei partiti che è diviso e usa questo fenomeno per scopi politici ed elettorali, dimenticandosi che la politica è il luogo in cui questa problematica deve trovare delle risposte concrete e convincenti.

Credo che sia venuto il momento di richiamare tutti alle proprie responsabilità, di superare le divisioni che ci bloccano e di lavorare insieme per il bene comune.

Senza più tentennamenti.

È ciò che ci chiede il Signore in questo periodo di Avvento e per un Natale di fraternità.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

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