Pubblicato il: 01/01/1970Categorie: Editoriali, News

Le difficoltà che il mondo sta vivendo in questo tempo sono alla portata di tutti noi, ci sconcertano sono al centro di tante analisi teoriche sugli effetti per l’economia mondiale o sugli scenari dei futuri sviluppi politici, ma poi tutto finisce lì.

Come le nostre comunità cristiane stanno affrontando tutto questo? Mi sembra purtroppo con grande stanchezza e in modo un po’ distaccato. Gli scenari che ci si prospettano sia a livello nazionale che internazionale non sono molto chiari e ci fanno vivere un tempo faticoso che sembra privo di prospettive. Per questo molte nostre comunità hanno scelto la strada che sembra loro l’unica percorribile, quella del chiamarsi fuori da questo dibattito. E’ più semplice rinchiudersi in se stesse, impegnandosi in molteplici attività, culturali, caritative, ricreative, realizzate all’interno delle comunità, attività che danno risultati concreti e visibili, ma che in tanti casi lasciano inevaso l’interrogativo: la comunità cristiana ha ancora la capacità di trasmettere il messaggio di salvezza che Cristo ci ha consegnato per donare a tutti gli uomini?

Questo modo di agire, che in un contesto comportamentale più ampio ha la sua ragione di essere, se diventa l’unico modo per concretizzare un cammino comunitario ci fa correre il rischio di allontanarci sempre più dalla concretezza della vita, isolandoci nelle nostre certezze, dandoci la convinzione che la società in cui siamo inseriti non ha niente da dirci, e che quindi val la pena costruirci con chi ci è vicino, ci è amico, con chi la pensa come noi una società parallela autoreferente.

Queste riflessioni non sono frutto di pessimismo, ma credo di realismo dato dall’analisi di alcune risposte che il mondo cristiano sta dando ad una serie di sollecitazioni che ci vengono fatte da tanti, troppi popoli che in questo tempo stanno vivendo il calvario della guerra, della dittatura, della fame. Sto pensando in particolar modo alla richiesta di aiuto e di accoglienza che in modo pressante ci stanno arrivando dalle popolazioni del nord Africa e alle risposte che noi come nazione ma soprattutto come comunità cristiana stiamo cercando di dare. Sono pienamente convinto delle difficoltà che una accoglienza di questo tipo comporta sia a livello logistico che comportamentale all’interno dei nostri paesi, questi nostri fratelli sono comunque persone che provengono da cultura e modi di vita diversi dai nostri, questo però non giustifica affatto il nostro disinteresse quasi totale del problema, non giustifica la nostra chiusura all’accoglienza. Per questo ritengo importante riprendere una riflessione seria sull’uomo. Dobbiamo saper mettere al centro la persona, la sua dignità, prima che la sua appartenenza: questo significa che in primo piano ci deve stare la tutela dei diritti di una persona prima ancora di una sua eventuale tutela di residenza.

E’ altrettanto importante saper tutelare la dignità di una persona prima ancora di una conoscenza della sua identità. Non possiamo più tollerare che nel mondo ci siano degli invisibili, dei clandestini, ma dobbiamo riconoscere queste persone come nuove, non conosciute, con le quali dobbiamo innanzitutto costruire relazioni. Su questa relazione è possibile creare una nuova cultura dei diritti che sappia superare il limite che ci fa tener conto solo delle conquiste che noi durante la nostra storia abbiamo giustamente acquisito, ma che ci apra ai giusti diritti reclamati dalle persone che arrivano nel nostro paese.

Il primo diritto è quello dell’immigrazione per sfuggire alla guerra, alla miseria, alle emergenze ambientali, all’inquinamento.

Un secondo diritto è quello dell’uguaglianza della possibilità di usufruire dei servizi fondamentali per una persona, che sappia superare i particolarismi di razza di ceto di nazionalità, che consideri allo stesso modo uomini, donne , minori, ammalati; che dia la stessa possibilità a tutti di accedere a scuola, lavoro, assistenza per la salute, casa, possibilità di voto, reddito minimo. Questo dell’uguaglianza è un diritto oggi negato a tanti nella nostra società a partire da chi è straniero, da chi è precario.

Un terzo diritto è quello della possibilità di esprimere e di vivere le proprie radici culturali e religiose all’interno di una società come la nostra che pur essendo sempre più multietnica di fatto tiene ai suoi margini chi non si conforma al nostro modo di essere. E’ importante che tutti possano sentirsi parte attiva della società, a tutti in modo indistinto va data la possibilità di confrontare con gli altri le positività della propria cultura della propria esperienza di vita e il frutto di questo confronto deve diventare la base per poter costruire una società più giusta e a misura d’uomo. Per attuare questo progetto di vita basato sul confronto l’unica risorsa vera che abbiamo è quella del dialogo che purtroppo cozza con la cultura dominante di oggi che non prevede dialogo ma è strutturata su modelli di vita legati al consumo, alle indagini di mercato che ci indicano quali sono le tendenze che ci permettono di vivere una vita senza problemi, in caso contrario ci viene iniettato il germe della paura di perdere i nostri presunti privilegi e questo germe ci rende integralisti. Il dialogo ci apre a tutte le esperienze umane positive, le valorizza ad alcune condizioni. Dobbiamo attraverso la nostra vita aprirci in modo sincero agli altri, dobbiamo saperci fare prossimo, attraverso la condivisione completa della nostra vita, gioie, dolori, problemi, preoccupazioni, conquiste fatte. Il dialogo ci apre all’azione comune in cui noi cristiani con tutti gli altri uomini di buona volontà ci impegniamo in un cammino comune di promozione dell’uomo. Il dialogo apre noi credenti e credenti di altre fedi a conoscere e ad apprezzare i valori spirituali di tutti. Il dialogo apre tutti gli uomini, anche chi non crede, alla bellezza dell’esperienza religiosa, questo è possibile se saremo capaci di condividere le ricchezze spirituali e culturali di ognuno, questo aiuterà tutti nella ricerca sincera di Dio.

C’è poi la dimensione dell’accoglienza che per la nostra società civile sta diventando un problema, che non lo si può risolvere con delle alchimie politiche che decidano a tavolino chi val la pena di accettare e chi debba essere messo al bando, ma va inserito in un cammino complessivo che aiuti la nostra società a fare chiarezza e a riscoprire i principi fondanti di una società che si dice civile e democratica. Penso che il centro lo debba trovare nell’uomo, nella sua centralità propositiva, l’uomo con le relazioni di cui è capace deve saper comunicare le esperienze di vita di cui è portatore deve farle diventare patrimonio comune. Questo patrimonio variegato se comunicato e condiviso diventa il collante che ci permette di camminare pur con esperienze di vita diverse in modo comune. La conoscenza reciproca può allora diventare la strada comune su cui camminare senza la paura di inciampare nel baratro della ignoranza che porta a incomprensione a divisione e a rifiuto di chi non ha la nostra stessa visione di vita. Mi permetto alla fine di queste riflessioni che mi sono dettate dalle reazioni che ho vissuto nell’affrontare penso in modo costruttivo le problematiche di questi giorni di far mio uno scritto di don Luigi di Liegro che può aiutarci in una riflessione più serena e libera da condizionamenti. “Non lasciamoci ispirare dalla paura. I migranti (i profughi) non sono un pericolo, ma degli uomini con la nostra stessa dignità. Esigiamo senz’altro il rispetto delle nostre regole di convivenza, ma allo stesso tempo superiamo il rischio della contrapposizione, accettiamone la diversità, rispettiamone la cultura e la religione, accogliamo quelli della nostra stessa fede, favoriamone l’associazionismo, valorizziamone l’apporto, prendiamo per primi l’iniziativa del dialogo, costruiamo assieme la città dell’uomo in un contesto europeo più aperto a tutti i popoli. Solo così le migrazioni potranno diventare per tutti un’occasione di crescita.”

Roberto Bernasconi
direttore della Caritas diocesana

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