
18 giugno 2021 – In questi giorni, in cui la pandemia sembra allentare la sua morsa, ci sentiamo ripetere quasi in modo assordante che finalmente ci è data la possibilità di vivere la normalità e questo atteggiamento rischia di archiviare nello scaffale del dimenticatoio tutte le fatiche e l’isolamento che abbiamo vissuto in questo ultimo tempo. Ci si può domandare: ma allora, questo è stato un tempo che è percorso invano? E inoltre: che cosa è la normalità per noi comunità cristiana?
La normalità, intesa prima della pandemia, è quella che la società attuale ci propina su tutti i media, il modello è quello di considerare la libertà personale come valore assoluto, valore che ci autorizza a soddisfare ogni genere di necessità, come la libertà di movimento, la soddisfazione dei bisogni personali, l’attenzione ai miei progetti a scapito degli altri e così via. Il periodo di pandemia ci ha fatto disattendere questo stile di vita e questi pseudo bisogni non soddisfatti hanno condizionato e “ingessato” le nostre vite.
Allora è giusto chiederci se per un cristiano la normalità di vita è quella che praticavamo prima della pandemia; oppure la normalità per un cristiano è altro.
Dall’osservatorio privilegiato dei servizi Caritas – che prima di essere luoghi di distribuzione sono luoghi di accoglienza e di ascolto – abbiamo colto in questi lunghi mesi una crescente domanda non tanto di beni di prima necessità – che pur servivano – ma soprattutto una domanda assordante di giustizia sociale.
Dal primo lockdown a oggi è venuta al pettine tutta una serie di incongruenze che la nostra società ha costruito puntando tutte le sue forze su uno sviluppo incontrollato, che non aveva come parametro la sconfitta della povertà, ma semplicemente la possibilità di un arricchimento continuo di una minoranza a scapito di tanti che per questo arricchimento mettevano a disposizione le loro vite.
Affermando ciò non voglio fare un discorso ideologico, ma intendo riportare la realtà vista da chi ha contribuito a costruire questa ricchezza senza averne la possibilità di assaporarne i frutti.
Le storture che ci hanno portato a questi limiti sono sotto gli occhi di tutti. Proviamo a elencarle: sfruttamento delle materie prime, lavoro in nero e sottopagato, finanza vissuta fine a se stessa e non al servizio di uno sviluppo integrale, armamento mondiale in crescita, monopolio sui mezzi di comunicazione, limitazione alla istruzione e alla salute a favore solo dei popoli ricchi, sfruttamento dei popoli sottosviluppati ridotti a un regime di schiavitù moderna, riduzione del valore della vita solo a fattore economico.
Di fronte a questo quadro, nel tempo della pandemia come ha reagito la nostra comunità cristiana che si sente investita per sua natura a concretizzare nel mondo il messaggio evangelico che ha ricevuto da Cristo? Quali prospettive si sta dando per uscire dalle secche in cui la pandemia l’ha fatta incagliare?
C’è il rischio reale che tutto torni come prima, anzi peggio di prima. In questi mesi abbiamo trovato anche all’interno delle nostre comunità degli escamotage che ci hanno fatto credere di aver affrontato e risolto i problemi delle nuove povertà: ad esempio, le nostre comunità sono diventare il luogo di raccolta di tutti gli scarti alimentari che la nostra società produce (e ne produce ancora troppi); abbiamo incentivato il lavoro in nero (badanti, lavoretti in nero nelle nostre parrocchie, vendite di generi di prima necessità senza scontrini legali). Questi sono gli esempi più eclatanti che ci fanno dire l’incapacità di saper affrontare questo momento della vita con la prospettiva di un cambiamento che non metta al centro il profitto o l’indottrinamento delle persone su dei progetti personali, ma avere la capacità di costruire un cammino che aiuti tutti a riscoprire e a vivere la dignità di essere figli di Dio sull’esempio di Cristo che per questo ha speso la sua vita terrena.
Per attuare questo cammino credo che dovremmo riprendere ciò che papa Francesco ci dice nella sua enciclica Evangelii Gaudium, dove ci invita a considerare concetti importanti.
Il tempo è superiore dello spazio
Questa affermazione ci aiuta a capire che il compito di una comunità cristiana non è solo di costruire spazi che ti possono dare risultati che ti gratificano in modo immediato, ma che poi non costruiscono veramente il bene dell’uomo, che non si inseriscono nel cammino di crescita complessiva dell’umanità; invece, il cammino vero che una comunità deve compiere è quello che ti aiuta a tenere conto non solo nell’immediato ma anche dell’esperienza passata e di saper guardare in prospettiva.
L’unità prevale sul conflitto
Con questa affermazione il Papa ci dice che il conflitto – anche all’interno delle nostre comunità – deve essere accettato per poter essere ragionato e risolto; quanti conflitti sono nati e sembrano non potersi risolvere all’interno della nostra comunità, gruppi contro gruppi, sacerdoti contro laici, parrocchie contro parrocchie, idee contro altre idee… Il Papa ci dice che se abbiamo la volontà di affrontare il conflitto riusciremo a capire le idee degli altri e a mettere a frutto questa diversità, perché da inciampo possa diventare cammino comune.
La realtà è più importante dell’idea
Di fronte a questi cambiamenti repentini, dove sembra che nulla abbia più senso, le nostre comunità stanno perdendo il senso della realtà e rischiano di ritagliarsi una realtà virtuale legata alla idea, al principio asettico o, peggio, a ideologie personali. Allora diventa importante ritornare a guardare la realtà, a capirla, a condividerla e su di essa incarnare i principi che altrimenti non sarebbero più compresi dalla gente.
Il tutto è superiore alla parte
Il limite delle nostre comunità – acuito dalla pandemia – è stato quello di chiudersi in se stesse e di cercare le soluzioni migliori per la comunità stessa mettendo al centro del proprio agire le proprie caratteristiche. Il Papa ci dice che nel cammino quotidiano di una comunità bisogna avere la chiaroveggenza di guardare oltre i propri confini, bisogna avere la capacità di vedere gli altri non solo come un problema da risolvere ma come una opportunità che ti viene data. In una comunità di questo tipo ti potrai accorgere che, poveri, emarginati, migranti, ma anche chi si interessa di politica e di sociale, tutte queste categorie hanno la stessa dignità di fronte alla comunità stessa e hanno qualcosa da donare al progetto comune.
Credo allora che sia giunto il tempo per noi di riflettere sul cammino che il Papa ci ha indicato se vogliamo dare un senso compiuto alle fatiche che in questo periodo hanno minato le fondamenta delle nostre comunità ma anche del vivere quotidiano. E questo lo possiamo fare se avremo il coraggio di accettare la sfida che ci permetterà di recuperare quei valori di solidarietà e di condivisione che l’egoismo del possesso ci ha fatto perdere.
Solo così potremmo sperimentare e vivere un cammino che potrà aiutarci a costruire una società più giusta, dove il centro non sarà più il possesso di cose, ma il rapporto sincero e costruttivo tra le persone.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
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