9 aprile 2017 – Oggi a Como, sul fronte dell’accoglienza dei migranti, ci troviamo di fronte a una situazione molto complessa, non tanto a causa delle persone presenti (e che quotidianamente giungono sul nostro territorio), quanto a una fatica oggettiva che si registra tra le varie “anime” – anche nel mondo cattolico – che vivono l’esperienza dell’accoglienza e che agiscono con una visione diversa – spesso poco condivisa – nell’affrontare i numerosi problemi.
Mi riferisco a quelle persone, a quei gruppi, a quelle comunità, a quelle associazioni che operano sul territorio, animati sicuramente da tanta buona volontà e desiderio di fare carità, ma che a volte rischiano di vivere e compiere il loro servizio senza un progetto preciso.
Senza prospettive condivise.
Con l’obiettivo, a volte, di fare un’accoglienza indiscriminata, fine a se stessa; di alimentare illusioni (non tutti possono o potranno avere un regolare permesso); oppure di enfatizzare problematiche legate all’organizzazione e al vivere quotidiano quando, invece, tutto è sotto controllo, con il rischio di alimentare strumentalizzazioni e malcontento.
Allora credo sia giunto il momento – e mi riferisco soprattutto all’ambito ecclesiale – di impegnarci per trovare una visione unitaria e coesa, al fine di continuare questa nostra importante missione.
Altrimenti di fronte a noi intravedo due gravi rischi. Il primo: fallire il nostro obiettivo di accogliere con umanità e rispetto queste persone; il secondo: creare malcontento nelle nostre comunità, che in alcuni casi possono sentirsi “trascurate”, o non protagoniste nella stessa opera di accoglienza.
Sono convinto che in questo momento manchi una capacità di pensiero che supporti il servizio che stiamo facendo.
Quindi, oggi posso affermare con rammarico che nella nostra città questo modo di affrontare l’accoglienza stia mettendo a nudo tutti i nostri limiti, tutti i nostri personalismi e stia minando la positività di tutte le azioni belle e buone che in questi ultimi anni abbiamo compiuto.
Mi chiedo, quindi: noi, Chiesa di Como, siamo la “Chiesa in uscita” che Papa Francesco ci invita a vivere?
Mi sento di invitare tutti a riflettere su questo punto.
Mi sento di invitare tutti a riprendere il cammino di una radicalità evangelica che parta da un approfondimento serio della Parola di Dio e non da una sua interpretazione.
Mi sento di invitare tutti a recuperare un dialogo costruttivo con le forze sociali e politiche della città, la cui azione a volte non brilla di profezia.
Mi sento di chiedere a giovani e meno giovani che in questo momento – anche agendo attraverso le strutture legate a Caritas – si stanno impegnando nell’accoglienza di non cadere nella contrapposizione e nel radicalismo, ma di alimentare la loro azione con la crescita culturale, con il dono di sé, con il servizio disinteressato, con scelte anche impopolari.
Soltanto in questo modo riusciremo a cambiare la società.
In questa prospettiva, Cristo stesso ci è d’esempio.
Con la sua vita spesa e donata agli altri spesso senza clamore ci indica chiaramente che questa è l’unica via per arrivare degnamente alla Pasqua di Risurrezione. Quindi a una vita nuova dove non ci sono più profughi e migranti, aguzzini e vittime. Dove le differenze non sono un impedimento, ma un arricchimento reciproco.
Ciò vale nella vita di tutti i giorni, nella società.
Nella stessa Chiesa.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
Condividi questo articolo
Continua a leggere