Pubblicato il: 01/08/2016Categorie: Editoriali, News

1 agosto 2016 – In queste ultime settimane le cronache mediatiche hanno posto sotto i riflettori la drammatica situazione alla stazione internazionale di San Giovanni a Como. La presenza dei migranti allo scalo comasco varia di giorno in giorno e ha raggiunto numeri impressionanti: oltre 200 persone, tra uomini donne, bambini (e spesso la cifra è ancora superiore).
Pubblichiamo in questa occasione la riflessione del direttore della Caritas diocesana, Roberto Bernasconi, apparsa sul numero de “il Settimanale della Diocesi di Como” del 30 luglio 2016.

Dopo una giornata convulsa iniziata alla stazione internazionale di San Giovanni di Como per valutare il numero e lo stato delle persone presenti, continuata con incontri istituzionali per valutare e riflettere sulle cose da fare e sulle responsabilità da prendere o da delegare, e finita al posto di dogana dove prendi in carico sette ragazzi minorenni Eritrei, che sei sicuro scapperanno appena scesi dalla macchina, ti chiedi che senso abbia tutto questo. Val la pena impegnarsi così, se poi le cose non cambiano anzi peggiorano, se il fare ti abbruttisce al punto di non avere più la voglia di riconoscere volti e storie, di regalare affetto e calore umano?

Questo è lo stato d’animo mio e che colgo in chi sta vivendo a diverso titolo l’esperienza dell’accoglienza dei migranti; parlo di funzionari dello Stato, forze dell’ordine, politici, volontari e operatori di cooperative e associazioni, volontari delle parrocchie, che in diversi modi, chi per professione e chi per vocazione, si sono trovati a essere clandestini imbarcati sul peschereccio sgangherato dell’accoglienza che il nostro Paese ha messo a disposizione. Questo peschereccio è salpato con un equipaggio volenteroso, ma non addestrato, con poco carburante, con viveri insufficienti e con una rotta che non indica il porto di approdo.

Durante la navigazione incontra mare mosso e, quando sembra che il vortice della tempesta possa avere il sopravvento, chi sta sul peschereccio, piuttosto che collaborare per far stare a galla la barca, cerca di salvare se stesso, perché ritiene che la sua esperienza di vita sia indispensabile e che, per salvare se stesso, si possano sacrificare gli altri. Ma agendo in questo modo onnipotente rischia di non essere capace di salvare neanche la propria vita troppo intrisa di orgoglio!

Ha dimenticato, questa persona, di far parte del genere umano, prima di essere figlio di nazioni potenti che pretendono di governare il mondo; è in questo momento di naufragio che ci si ritrova nella condizione di povero, di chi ha bisogno di aiuto, è in questo momento che si ritrovano i volti, che si ha il coraggio di tendere le mani, che si superano le differenze di lingua, di cultura, di colore, che ci si ritrova fratelli e figli dello stesso Padre.

Se si ha il coraggio di vivere questa conversione, allora passa lo scoraggiamento, perché ci si rende conto di non essere soli sulla barca ma, pur nella diversità, di essere accanto ad altre persone che ancora hanno la voglia di costruire la vita non solo basandosi sui propri privilegi, sulla visibilità che ti è data dalla posizione sociale, dal ruolo di prestigio che occupi in comunità e, come diceva recentemente il Papa, dalla quantità di preghiere recitate, che ti tolgono la capacità di ascoltare quello che Lui ti vuole comunicare, soprattutto attraverso le persone che soffrono.

Ci riscopriamo comunità di persone che ascoltano, che danno attenzione all’altro, ai fratelli e alle sorelle che si ritrovano senza casa, lontani dagli affetti, ed è attraverso questo ascolto di chi apparentemente non ha nulla da donarci che riscopriamo la bellezza di essere comunità.

Ci riscopriamo comunità e non moltitudine, che è nascosta, che ha pudore di presentarsi al mondo perché donare la propria vita agli altri non è di moda, non è guadagno, ma può diventare impedimento nell’inserimento nella società che conta.

Quante vedove di Sarepta abbiamo conosciuto all’interno dei nostri servizi che hanno avuto il coraggio di credere che se metti a disposizione di chi ha bisogno tutto quello che possiedi, compreso la vita, non rimarrai senza il necessario sia per te che per i tuoi cari e la tua vita non la perderai ma troverai quella vera, troverai attraverso i fratelli aiutati Cristo che è la Verità.

Alla fine di questa riflessione, che attraverso il “Settimanale” mi sento di condividere con le comunità della città, per testimoniare non la fatica o la frustrazione di una tragedia che sembra non avere fine, ma la bellezza di questo servizio, che per una comunità cristiana è doveroso, cresce la certezza che in ogni uomo, proprio perché icona di Cristo sofferente, rinasce la speranza e la fiducia verso la vita e la società, rinasce la voglia di affrontare le fatiche che questo mondo ammalato di egoismo ci prospetta tutte le mattine.

Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como

Condividi questo articolo

Continua a leggere

Articoli correlati