4 giugno 2020 – In questo tempo anomalo, in cui tutte le nostre certezze, i nostri programmi e le nostre previsioni vengono regolarmente smentite dalla quotidianità che ci riporta alla vera realtà, che ci ricorda la debolezza del genere umano, abbiamo avuto la possibilità di riscoprire concretamente – attraverso il cammino di vicinanza a tante persone – quelle virtù fondamentali della nostra fede che di solito releghiamo a un approfondimento teorico di catechesi.
La Fede, la Speranza e la Carità da principi teorici in questi mesi per noi sono diventate concrete, hanno assunto un volto, sono diventate visibili attraverso la nostra vita e la vita di chi ci ha avvicinato.
Mi sembra corretto, proprio perché questa esperienza non vada persa, comunicare queste mie riflessioni adesso che siamo passati alla cosiddetta “fase due”, che ci permette di riaprire alcune possibilità di socializzazione che nei mesi scorsi ci erano precluse: sto pensando anche alla possibilità di partecipare di nuovo alla Messa, dove ha senso offrire il frutto del lavoro e delle sofferenze di questi mesi, perché diventino parte del Corpo e del Sangue di Cristo che si è offerto per la nostra redenzione.
Riflessioni, le mie, che si basano sulla testimonianza di vita vissuta da parte di tante persone volontarie e degli operatori che in questi mesi di pandemia, pur rispettando i giusti limiti di sicurezza posti dallo Stato, hanno continuato a operare a favore di tanti fratelli e sorelle che vivono nel bisogno più estremo, che soffrono di solitudine e di emarginazione.
A queste persone di “buona volontà” il mio sentito grazie di cuore.
Per me è Grazia questo periodo di tempo di chiusura e di limitazioni, che per noi cristiani ha coinciso con la parte più importante dell’anno liturgico, quello della Quaresima e del Tempo pasquale; quest’anno questi sono stati tempi apparentemente limitati o buttati perché la pandemia ci ha impedito di vivere in modo comunitario la passione, la morte e la Resurrezione di Cristo. Dico apparentemente, ma a mio parere invece questo tempo è stato un periodo fecondo e di spiritualità profonda.
Spiritualità che si è concentrata sulle persone: ci siamo sentiti veramente parte del genere umano partendo non dalle nostre qualità, dalle nostre certezze, dal donare quello che noi fino a ora avevamo in abbondanza o dal bisogno di evangelizzare, ma dalla condivisione delle limitazioni e delle paure comuni, dalla consapevolezza della nostra finitezza, della nostra debolezza, che ci ha avvicinato alla gente e ci ha fatto sentire parte viva di questa umanità in difficoltà.
Per operatori e volontari mettersi a servizio non è stato facile; non tanto per la fatica fisica, la disponibilità a qualsiasi ora del giorno, la paura dell’esposizione all’infezione, ma la cosa più impegnativa è stato il rapporto con le persone che oltre alle problematiche solite di una vita vissuta in strada o di una serie di problematiche dovute alla perdita della casa o del lavoro o alla disgregazione famigliare si sono trovate a dover gestire anche le paure legate alle ulteriori incertezze portate dal Coronavirus.
Ho la convinzione che superata l’emergenza rimarranno i problemi irrisolti che non vanno passati ad altri; noi siamo parte integrante di questa società che potrà cambiare nella misura in cui tutti noi ci crediamo e mettiamo a servizio del bene comune il patrimonio di esperienze che anche in questo periodo abbiamo acquisito.
Tutte le persone che ci hanno lasciato a causa della pandemia ci ricordano che il compito vero di una Comunità ecclesiale è quello di accompagnare, di sostenere, di non avere paura, di mettersi a servizio della società con le proprie energie, le proprie strutture e, se necessita, le proprie vite sull’esempio di Cristo che ha donato la sua Vita a favore di tutta l’umanità.
Allora credo che un’altra responsabilità che investe tutte quelle persone che in modalità diverse in questo periodo sono state accanto a chi era nel bisogno sia quella di aiutare le nostre Comunità ad uscire dalla paura e dell’isolamento, con la falsa illusione, così facendo, di guadagnarsi l’immunità.
Questa dell’isolamento, del rinchiuderci sperando che tutto passi, dell’affidarci in modo scaramantico al divino, credo sia l’infezione più pericolosa che questo virus ci lascia e che noi potremo superare solo se riprendiamo la capacità di stare con la gente, di trasmettere l’amore di Dio che abbiamo ricevuto attraverso la vera condivisione nella quotidianità con tutti gli uomini e le donne che vivono accanto a noi e che con noi hanno bisogno di ricevere amore, speranza e prospettive per il futuro.
Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana di Como
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