Nel numero di dicembre 2024 della rivista cartacea “Storie di Caritas” della Caritas diocesana di Como è possibile leggere l’intervista/testimonianza di suor Maria Bianchetti, guanelliana, che da oltre 20 anni cucina per le persone in difficoltà della città di Como e dal 2021 vera e propria “anima” della mensa di solidarietà di Casa Nazareth.
Pubblichiamo qui il testo integrale e rimandiamo alla lettura dell’intera rivista, che è possibile scaricare da questo sito.

20 gennaio 2025 – Il suo sorriso e la sua mitezza sono contagiosi. Come la sua disponibilità, la sua generosità. La sua attenzione alle piccole cose quotidiane e a quelle importanti, indispensabili. E poi la sua fede, semplice e umile, che delinea il fil rouge di una vita intera, sin dalla tenera età.
«La mia vocazione inizia presto, all’età di 5 anni. I miei genitori erano catechisti e frequentavo un collegio di suore in una cittadina che si chiamava Encantado, nello Stato del Rio Grande do Sul in Brasile. Vedevo il loro lavoro e mi piaceva molto. Mi ricordo che alla domenica facevamo sette chilometri a piedi per raggiungere la chiesa. Camminavo con tutti i bambini in fila, fischiettando, e poi dopo la messa la suora ci dava un panino con il miele e una immaginetta della Madonna. Quel panino lo sognavo anche di notte, sognavo di accudire una donna anziana del paese, di poter dare da mangiare agli altri bambini, di sfamare chi aveva bisogno. E così ho fatto tutta la vita e ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di vivere questa vocazione ancora oggi».
Inizia con queste semplici parole il nostro colloquio con suor Maria Bianchetti, guanelliana, che da oltre vent’anni cucina per le persone in difficoltà della città di Como: fino al 2019 nella mensa di via Tomaso Grossi e dall’apertura nel 2021 a Casa Nazareth dove ogni giorno vengono serviti 230 pasti, oltre 75.000 in un anno.

Suor Maria racconta la sua vocazione e la sua esperienza di vita con umiltà, a tratti con commozione e un po’ di timidezza… ma poi ritornare all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, a Relvado, un paesino a 7 chilometri da Encantado, le fa prendere coraggio e si apre a un racconto prezioso.
«Sono nata nel 1954. A 14 anni, dopo una prima breve esperienza in convento, ho conosciuto le Suore Guanelliane, che gestivano una casa in un paese vicino: ero affascinata dal loro carisma basato sull’accoglienza, la carità e la solidarietà. Così, all’età di circa 15 anni ho deciso di entrare nella loro congregazione. Negli anni successivi ho proseguito gli studi e ho frequentato diversi corsi che mi hanno permesso di essere di aiuto in cucina, nel loro ospedale e in diversi ambiti caritativi. Dopo 12 anni sono stata trasferita a Rio de Janeiro. Nella nostra casa davamo ospitalità, contemporaneamente, a 120 bambini di strada e a 22 donne anziane che chiamavamo amabilmente “nonne”. Ero felice perché desideravo lavorare con i bambini e gli anziani».

E come ci arriva una suora che viveva in una megalopoli come Rio a Como?
«Di fronte a una proposta o a un cambiamento io dico sempre di sì, quasi senza riflettere. Così è stato quando, durante una visita in Brasile, la madre generale dell’epoca, Elena Salarici, che era in procinto di aprire una casa per curare i malati di Aids in Italia, ci disse che aveva anche bisogno di una suora da impiegare nella cucina di una mensa per i poveri. Così sono arrivata a Como nell’aprile del 2000 e da allora sono sempre rimasta in questa città. Per circa 17 anni ho diviso il mio impegno lavorando nella cucina della mensa in via Tomaso Grossi e seguendo anche le persone malate di Aids accolte nella casa alloggio “La Sorgente” di viale Varese, gestita oggi dai Padri Somaschi».

Come conciliava questi due impegni?
«Il mio compito era andare tutte le mattine in comunità a portare agli ospiti la colazione e le medicine. Il pomeriggio lo passavo invece a cucinare per la mensa. Sono stati anni molto intensi: spesso durante il giorno mi improvvisavo infermiera, oppure accompagnavo i malati in carrozzina in riva al lago, seguivo anche alcune famiglie straniere, portando alla scuola materna i bambini dei genitori impegnati nel lavoro… e nel frattempo dovevo fare anche la spesa per la cucina. Allora i volontari non erano tanto numerosi come oggi e dovevamo arrangiarci nonostante tutto. Ma la Provvidenza non è mai mancata».

In quegli anni c’era un “volontario” un po’ speciale…
«Sì… il nostro caro don Roberto Malgesini. Ogni mattina veniva portando ciò che era avanzato dal giro colazioni ma spesso passava anche nel pomeriggio per recuperare caffè caldo da distribuire. E poi il suo intenso lavoro anche alla sera. Quando avevamo bisogno, lui c’era sempre».

… e anche alcuni ospiti che sono riusciti a “riprendere il cammino”…
«Ho conosciuto tante persone che ogni giorno venivano in mensa e di notte dormivano per strada. Alcuni di loro hanno proprio ripreso il cammino: c’è chi è diventato volontario in mensa, chi si è sposato e oggi è papà, c’è chi ha un lavoro e anche una casa».

Segni di una Provvidenza sempre all’opera…
«Ho sempre avuto fiducia nella Divina Provvidenza. Quante volte è capitato che in cucina mancasse qualcosa, per esempio finisse la scorta di caffè per la colazione, oppure le uova per cucinare o l’olio… e poi, nel giro di poche ore, senza neppure chiederlo, bussava puntuale una persona con la borsa piena proprio di quel prodotto, oppure arrivava una donazione».

Quale rapporto ha instaurato in questi anni con i volontari?
«Sono sempre molto affettuosi con me e io li ringrazio di cuore per la loro presenza e dedizione. Li ammiro molto. Anche a Casa Nazareth il loro lavoro quotidiano è indispensabile. Non soltanto per fare, ma anche per saper accogliere in silenzio, senza giudicare. Un povero spesso non ha bisogno di grandi cose… gli basta essere ascoltato. Mi accorgo che il servizio in mensa arricchisce i volontari, li rende sereni. Come diceva quel vescovo brasiliano: la carità copre una moltitudine di peccati. È vero, sai… Io dico sempre».

Suor Maria con la cuoca Oriona, operatrice della Fondazione Caritas

C’è un incontro vissuto in mensa in questi anni che l’ha particolarmente colpita?
«Una sera di alcuni anni fa arrivò da noi un uomo di circa 30 anni, capelli lunghi, barba lunga, con un sacco pieno delle sue cose, era sporco e malandato. Con l’aiuto di un volontario gli abbiamo dato la possibilità di fare una doccia e così abbiamo scoperto che aveva i piedi feriti… sotto era carne viva. Lo abbiamo medicato, abbiamo lavato i suoi vestiti, poi ha chiesto di essere accompagnato alla stazione. Il giorno dopo al mattino lo abbiamo cercato, ma non c’era più. Sparito. Sono convinta – suor Maria trattiene la commozione – che fosse il mio Gesù che voleva farsi aiutare».

Ricorda un periodo particolarmente difficile da affrontare?
«Nel 2020 quando è arrivata la pandemia preparavamo i sacchetti con il cibo per le persone e venivano a ritirarli, ma dovevano mangiare fuori. Non poter aprire loro la porta, questo mi faceva tanto soffrire. Poi è arrivata Casa Nazareth con i suoi ampi saloni e il suo giardino. Lasciare la mia mensa in via Tomaso Grossi non è stato facile, ma quando vedo gli ospiti felici per questi spazi mi si riempie il cuore di gioia».

Qual è la sua giornata-tipo?
«Mi alzo alle 4 e 40 e inizio la giornata con le preghiere… mi piace molto pregare da sola, fare un po’ la “pettegola” con il mio Signore, io e Lui da soli. Dopo le lodi, la meditazione e la messa con le 5 consorelle che vivono con me, facciamo colazione e verso le 8 arrivo in mensa. Prima di aiutare a cucinare ci sono sempre tante piccole cose da preparare, come asciugare le stoviglie, pulire frutta e verdura, tagliare il pane… Non ho orari da rispettare, mi affianco alle operatrici e il tempo passa in fretta. Verso mezzogiorno torno a casa e mangio con le mie consorelle. Nel pomeriggio torno ancora in mensa per qualche lavoretto fino alle 18. Poi di nuovo a casa con le mie consorelle che sono anziane e hanno bisogno di aiuto e compagnia, nonostante siano ancora attive».

Non pensa mai di godersi la meritata pensione?
«Fino a quando il Signore lo permetterà, io vorrei continuare a servire i poveri. Una mia consorella che ha lavorato quasi 50 anni in un villaggio poverissimo, in Patagonia, diceva sempre: “Vorrei morire in piedi, lavorando”. Anch’io la penso così. Però sono figlia dell’obbedienza, dirò sempre di sì, anche se vorranno trasferirmi. Spero solo che non sia lontano, così posso tornare qui in mensa… magari di nascosto».

Michele Luppi
Claudio Berni

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