
Nel numero di agosto 2024 della rivista cartacea “Storie di Caritas” della Caritas diocesana di Como l’intervista integrale a Tapha Nije, arrivato oltre 10 anni fa nel nostro Paese in fuga dalla trappola libica, accolto nella Caritas diocesana come ospite e oggi prezioso operatore.
Pubblichiamo qui il testo integrale e rimandiamo alla lettura dell’intera rivista, che è possibile scaricare da questo sito.
Per tutti noi Tapha Nije è un collega, stimato e a cui vogliamo bene: custode al dormitorio comunale di via Napoleona, a Como, e preziosa presenza di accoglienza a Porta Aperta. La sua storia è certamente un modello di integrazione riuscita, di come le migrazioni possono essere un percorso virtuoso sia per chi accoglie sia per chi viene accolto. E pensare che la sua storia con la Caritas diocesana di Como inizia con cinque biscotti e un bicchiere di latte.
Tapha, questo è per te un anno speciale…
«A giugno ho festeggiato i dieci anni dal mio arrivo in Italia. Era il 26 e con una barca partita dalla Libia sono arrivato a Lampedusa. Da lì ho iniziato, come tanti altri migranti, il percorso di accoglienza: per sei mesi sono stato ospitato in Campania a Sicignano degli Alburni, e poi mi hanno trasferito al nord, a Como».
Cosa ricordi del tuo arrivo in città?
«Partiti da Sicignano ci hanno trasferiti prima in pullman per Napoli e da lì in aereo fino a Malpensa dove ad attenderci c’era un altro pullman che ci ha portato a Como. Siamo arrivati alle 2 di notte e ricordo che a prendermi sono stati Roberto Bernasconi e Maurizio, allora operatore dell’accoglienza. Mi hanno portato in via Sirtori all’ hub di prima accoglienza gestito dalla Caritas. Lì c’era il custode Angelo che mi ha accolto con un bicchiere di latte e cinque biscotti. Il giorno dopo ho conosciuto Samuele, referente dell’accoglienza. L’hub di via Sirtori era una struttura per l’accoglienza temporanea, ma sono rimasto molti mesi, fino alla chiusura».
Come mai?
«Perché fin da subito ho iniziato a dare una mano nella distribuzione dei pasti e aiutando gli operatori nelle traduzioni grazie all’italiano che avevo imparato nei mesi in Campania. Da lì è stato un rapido crescendo: Roberto (Bernasconi, ndr) mi ha preso subito a cuore e mi portava con sé quando andava a fare qualche lavoretto. Insieme abbiamo imbiancato i locali dell’ex Caserma di via Borgovico che sarebbe poi diventata il dormitorio di Emergenza Freddo. Rendermi utile era importante perché non mi è mai piaciuto stare con le mani in mano».
Quando ti hanno proposto di diventare operatore Caritas?
«Dopo i primi mesi mi hanno chiesto di restare in via Sirtori con un tirocinio di sei mesi che è stato poi rinnovato per altri sei e, infine, è arrivata l’assunzione come custode notturno. Nel frattempo, dopo la chiusura dell’hub, mi avevano spostato in un Centro di Accoglienza di Lipomo».
Quando sei partito dal Gambia immaginavi che un giorno saresti arrivato in Italia?
«La verità è che io sono partito dal Gambia, dove c’era una pesante dittatura, per andare in Senegal, lavorare e mandare soldi a casa. Lì ho incontrato delle persone che si stavano preparando al viaggio verso la Libia, con l’idea di stabilirsi lì a lavorare. Ero meccanico e sapevo che nella Libia di Gheddafi c’erano molte opportunità. Purtroppo per me sono arrivato in Libia nel 2010, poco prima dello scoppio della guerra. Ma sono fuggito solo nel 2014».
Per quale motivo?
«Facevo il meccanico a Tripoli in un grande capannone. Il mio capo, un libico molto buono, mi aveva offerto casa e lavoro: ogni mattina mi accompagnava, cercando di proteggermi dai rischi. Ma nel 2014 la situazione, anche nella capitale, è andata fuori controllo così, lui stesso, si è offerto di aiutarmi a partire. È stato lui a trovarmi la barca e a pagare per me il viaggio».

Fino a quel momento non avevi idea di proseguire il tuo viaggio verso l’Europa?
«Allo scoppio della guerra a Tripoli ero come in trappola: non potevo tornare in Gambia, dove c’era ancora la dittatura (durata fino al 2016), e non potevo restare lì. L’unica via era il mare».
C’è stato un momento in cui hai pensato che a Como si stava bene e che non avresti cercato di andare altrove?
«Subito! Io cercavo un posto dove poter lavorare e fare qualcosa e questo l’ho trovato qui. Non ho mai pensato di trasferirmi altrove anche se un mio zio che vive a Londra più volte mi ha chiesto di andare da lui. Nel 2016 mi hanno dato i documenti con un permesso di soggiorno di due anni per motivi umanitari, poi tramutato in un permesso di lavoro».
A giorni tornerai in Gambia per incontrare la tua famiglia e in particolare le tue due figlie…
«Loro vivono con mia madre. Torno soprattutto per loro perché vivere lontano è dura, ma lo faccio per garantir loro un futuro. In Gambia oggi la dittatura non c’è più, ma c’è ancora molto da fare»
Cosa vuol dire per te essere un operatore della Caritas?
«Quando ti accorgi che quello che fai o dici può avere un impatto sulla vita delle persone e rendere la loro vita migliore ne capisci l’importanza. Penso ad alcuni ragazzi migranti che avevano fretta di andare via dalla struttura in cui erano (perdendo il diritto all’accoglienza, ndr) e che ho convinto ad avere pazienza. Guardo a loro, vedo che oggi hanno un lavoro, una casa, i documenti. Sono felice».
Capita spesso di dare consigli a chi è arrivato dopo di te?
«Dico sempre ai ragazzi che la cosa più importante è avere un comportamento giusto, rispettare le regole. Perché se vuoi cambiare la tua vita le cose le devi fare come si deve. E poi la lingua, poter comunicare è fondamentale. Quando vedo persone qui da dieci anni che ancora non parlano italiano mi chiedo come sia possibile».
C’è anche chi, per tanti motivi, sembra a un certo punto impantanarsi…
«La verità è che non è tutto facile, è dura! Ci sono persone fragili che di fronte alle difficoltà o a causa dei traumi vissuti, finiscono per perdersi. C’è chi beve o assume sostanze per calmarsi o non pensare alle cose brutte, finendo per rovinarsi. A volte con il tempo vedi proprio le persone che cambiano in peggio».
Tu sei musulmano ma lavori da tanto tempo in una realtà profondamente cristiana. Come vivi questa cosa?
«Io sono cresciuto in una scuola gestita da suore ed è la stessa scuola privata dove oggi vanno anche le mie figlie. Per me il rapporto con i cristiani è sempre stato naturale. Siamo tutti figli di un unico Signore».
All’inizio della nostra chiacchierata hai citato Roberto Bernasconi. Che ricordo hai di lui?
«È una persona speciale perché mi ha fatto vedere tante cose, mi ha consigliato e aiutato a integrarmi in Italia. Le sue parole e la sua vicinanza mi hanno aiutato tanto. È una persona che non potrò mai dimenticare. Mai, mai!».
Michele Luppi
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